Amnistia ma parziale
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STORIA Amnistia ma parziale 20/01/1970 

Di fronte ad una nuova proposta d'amnistia, la prima reazione del cittadino sollecito della Giustizia e dello Stato è negativa. Passare la spugna su certi reati può essere equo, opportuno e necessario in momenti eccezionali, per esempio dopo una guerra civile, per riportare la pace negli animi; ma in un Paese ordinato e libero non può diventare una pratica corrente di governo, né una via di fuga dalle difficoltà.

Una scappatoia

A parte le questioni di principio, come il carattere paternalistico-autoritario (tutti i vecchi sovrani benignamente facevano piovere sui sudditi misure di indulgenza negli eventi fausti per la Corona), l'amnistia ha molti difetti: offende la certezza del diritto, viola la norma della legge eguale per tutti e, in Italia, si presenta come una scappatoia per rinviare la riforma dei codici e della macchina giudiziaria.

Tuttavia non sarebbe fuori luogo, mi sembra, un'amnistia parziale per certi reati commessi durante le lotte politico sindacali dell'ultimo anno. Non già perché le battaglie dell'autunno possano essere paragonate ad una guerra civile, od i « lavoratori vittoriosi » abbiano il diritto d'imporre allo Stato una legge nuova, come pretendono gli ultimatum dell'estrema sinistra; e nemmeno perché infuri una « repressione », cui si debba resistere con misure straordinarie.

Ma ci sono altri motivi, mi pare, che consigliano provvedimenti d'indulgenza., Anzitutto, il precedente dell'amnistia accordata ai protagonisti delle lotte studentesche. Se nell'autunno 1968 le Camere hanno voluto cancellare un buon numero di reati commessi da universitari e liceali, ed annullare tante denunce (fondate od erronee che fossero) contro « figli di papà », non si vede perché gli stessi impulsi di clemenza non dovrebbero essere seguiti anche a vantaggio dei proletari. L'importante è che sia mantenuta la necessaria distinzione tra reati « politici » e teppismo, tra eccesso nell'uso dei mezzi leciti di lotta ed atti di delinquenza: soltanto i primi, a mio parere, sono amnistiabili; non il vandalismo o le violenze personali.

Ma c'è un motivo anche più forte, che induce ad esaminare benevolmente la proposta di amnistia: una parte delle denunce — mille o diecimila che siano — sono fondate su articoli del Codice o delle leggi di pubblica sicurezza incompatibili con la Costituzione, perché di netta impronta autoritaria e fascista. Finché queste leggi non sono annullate, polizia e magistratura debbono farle rispettare; ed il Parlamento non può cambiarle in tempo, perché non s'improvvisa una riforma della legislazione penale.

Per salvare insieme il rispetto del diritto, la giustizia e la Costituzione non rimane, dunque, che un parziale provvedimento di clemenza. Non sarà facile per le Camere il compito di dividere i reati amnistiabili da quelli che debbono essere puniti. L'Avanti ha tentato di tracciare la frontiera tra lecito ed illecito in un articolo dal titolo un po' demagogico (« Con questi articoli del Codice si legalizza la repressione»), ma dal contenuto assai serio: esso illumina con molta chiarezza tanto l'opportunità, quanto le insidie di un'amnistia.

Libertà e reati

Sussistono articoli che sono autentici resti fossili del regime fascista, e dovrebbero sparire dal Codice di una Repubblica democratica: su quel delitto assurdo ed ambiguo che è il «vilipendio», sulla «propaganda sovversiva », sulle «attività antinazionali », sulle «manifestazioni sediziose», sulla distribuzione « abusiva » di scritti o disegni, sulle pene esorbitanti che colpiscono l'«oltraggio a pubblico ufficiale » ecc.. Ma altri articoli, quantunque nel Codice Rocco abbiano un indubbio significato totalitario, non possono sparire dalla legislazione della Repubblica.

Per il fascismo, ogni sciopero era una forma di boicottaggio; tuttavia non si può abolire semplicemente l'articolo 509, e rendere lecito qualsiasi ostruzionismo alla produzione. L'art. 510 punisce con tre anni di carcere «l'arbitraria invasione ed occupazione di aziende agricole o industriali »: si possono ridurre le pene, ma non includere l'occupazione delle fabbriche tra le forme consentite di lotta sindacale. E' invocando l'art. 614, sulla violazione di domicilio, che sono denunciati operai colpevoli d'aver tenuto assemblee d'azienda senza il consenso della proprietà; lo Statuto dei lavoratori cancella in parte questo reato, ma non annulla la necessità di limiti e vincoli.

La Costituzione non proibisce lo sciopero politico, strumento di pressione sui poteri dello Stato, e quindi l'articolo 504 va riveduto; però non fino al punto di autorizzare illimitate « coazioni alla pubblica Autorità »: non può la Repubblica consentire che la piazza prevalga sul Parlamento o comandi alla burocrazia.

Sono pochi esempi fra i tanti: a mio parere, dimostrano che sarebbe autodistruttiva per lo Stato un'amnistia indiscriminata; e soprattutto che la riforma del Codice penale non può essere fatta alla garibaldina, o demagogicamente, a grandi sciabolate. Alle imposizioni davvero repressive volute dal fascismo, vanno sostituite norme che traccino confini netti tra libertà ed illegalità; ma al tempo stesso il generico diritto di sciopero, voluto dalla Costituzione, va regolato con norme che dividano — soprattutto nel settore pubblico — il lecito dall'illecito.

Si dimentica troppo spesso che, per evitare gli abusi e raggiungere la certezza del diritto, le due riforme vanno eseguite insieme.

La Stampa 20 gennaio 1970


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