Dopo il clamoroso verdetto di assoluzione, in appello la banda Liggio accusata di delitti mafiosi
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STORIA Dopo il clamoroso verdetto di assoluzione, in appello la banda Liggio accusata di delitti mafiosi 01/12/1970 

Il processo da oggi a Bari «per legittima suspicione» - Imputati 46 siciliani e il presunto capo-mafia - Questi sarà assente: condannato a cinque anni di confino, è scomparso - La prima sentenza d'assise sollevò polemiche: giudici e presidente avevano ricevuto lettere di minaccia. Si apre domani presso la Corte d'Assise d'appello di Bari l'ennesimo processo nei confronti di Luciano Liggio e altri quarantasei siciliani.

I giudici baresi dovranno occuparsi di due procedimenti riuniti in uno: quello per l'omicidio dei dottori Navarra e Russo, caduti in.un'imboscata la mattina del 2 settembre 195» mentre in auto tornavano a Corleone, e per l'omicidio di Vincenzo Collura (un seguace di Navarra), ferito mortalmente la sera del 24 febbraio 1957 in via Sant'Agostino in Corleone; e quello per la cruenta sparatoria avvenuta la sera del 6 settembre 1958 in via Puccio a Corleone fra uomini della cosca Navarra e uomini della banda Liggio, nella quale rimasero uccisi Marco e Giovanni Marino e Pietro Maiuri.

Nel luglio 1969 la Corte d'Assise d'appello di Bari rinviò il processo per l'omicidio Navarra a nuovo ruolo, onde consentire che il dibattimento si svolgesse contemporaneamente all'altro, trattandosi di fatti avvenuti a Corleone nello stesso periodo di tempo e con protagonisti gli stessi personaggi del mondo mafioso siciliano.

Nel procedimento dell'anno scorso, che tante polemiche suscitò in Italia dopo la sentenza di assoluzione di tutti gli imputati, compreso il presunto capo-mafia Liggio, per non aver commesso i fatti loro attributi, il pubblico ministero dott. Zaccaria si disse certo di aver raggiunto le prove (limitatamente al plurimo omicidio fratelli Marino-Maiuri) della colpevolezza degli incriminati, e aveva chiesto la condanna all'ergastolo per Luciano Liggio, Calogero Bagarella e Bernardo Provenzano.

Molti difensori

Molti avvocati difensori sono già da diversi giorni a Bari: sono anche giunti parecchi dei quarantasei imputati che attualmente sono confinati in diverse località italiane. Nulla invece si sa di Luciano Liggio, Bagarella, Provenzano, e Totò Riina, il braccio destro del presunto capobanda.

Il processo che comincia domani si svolgerà, si dice negli ambienti forensi, nell'atmosfera di mistero che caratterizzò la sera e la notte del 10 giugno 1969, quando avvennero fatti gravi che fino ad oggi non sono stati chiariti. In una stanza del Palazzo di Giustizia di Bari la Corte d'assise era riunita da dieci ore quando il presidente, dott. Vito Stea, premette un pulsante. Sulla porta si affacciò il cancelliere Arturo Tanzi, al quale venne richiesto il testo della legge per le amnistie e i condoni. Erano le 19,30: nella grande aula delle udienze centinaia di persone attendevano pazientemente il verdetto; il caldo diffondeva nervosismo. Il cancelliere Tanzi si recò nel suo ufficio, si procurò il testo della legge e si ripresentò nella stanza dove era riunita la Corte. Consegnò al presidente un volume e due lettere giunte con la posta del pomeriggio, verso le 17, e indirizzate la prima al presidente Stea e la seconda ai sei giudici popolari. Alle 21,30 il dott. Stea con la Corte entrò nell'aula delle udienze e nel silenzio generale lesse la sentenza: Luciano Liggio assolto dagli omicidi per non aver commesso il fatto e dall'associazione a delinquere con formula dubitativa. Complessivamente, vennero comminati soltanto sette anni (di cui sei condonati) e quattro mesi di reclusione a quattro imputati minori per favoreggiamento.

Il pubblico ministero aveva chiesto tre ergastoli e 347 anni di carcere.

La cattura

La notizia fece clamore. Il dott. Mangano, che all'epoca dei fatti era vice-questore di Palermo e fu il principale artefice della cattura di Liggio, affermò: « Era prevedibile. Si era già visto che l'istituto della legittima suspicione non regge alla prova dei fatti per i delitti di mafia. I giudici, in processi del genere, debbono essere in grado di valutare appieno le situazioni ambientali e la psicologia degli imputati, dei testi e delle parti lese ». Il giudice Cesare Terranova, che aveva istruito il processo, aggiunse: « E' grave, molto grave tutto ciò ». Il giudice Domenico Zaccaria annuii ciò subito che avrebbe interposto appello e fece capire che anch'egli nelle prime ore pomeridiane del 10 giugno 1969 aveva ricevuto una lettera anonima contenente minacce. La lettera era partita da Palermo.

Che cosa era accaduto in camera di consiglio? Qual era il contenuto delle lettere indirizzate al presidente Stea e ai giudici popolari? Il testo era unico, battuto a macchina su carta velina, in carta carbone con tre destinatari indicati contemporaneamente: Stea, i giudici, il dott. Zaccaria.

Il testo diceva: « Presidente della Corte d'Assise di Bari, li vogliamo avvisare Ti conosciamo che sei una carogna, sempre contro i poveri imputali innocenti. Ma questa volta se condanni come sei abituato, preparati i funerali, se ti trovano. Uomo avvisato è mezzo salvato. Se condanni anche un imputato di Lucianuzzo Liggio sarai scannato tu e lutti i figli e fratelli, a uno a uno, e tutti i giudici popolari che tieni. Abbiamo segnato pure a loro. Attenzione che non è uno scherzo ».

Assolto a Bari

Dal Palazzo di Giustizia di Bari, Liggio, accompagnato da Riina e dai suoi avvocati, uscì libero. Si recò subito nella villa dell'avv. Aurelio Gironda, alla periferia di Bari. Poi, in auto, andò a Bitonto, in casa dell'avv. Donato Mitolo. Aveva in animo di stabilirsi in Puglia; visitò una tenuta e disse al proprio avvocato che voleva trasformarla in azienda per allevare bestiame. Ma lo raggiunse un foglio di via obbligatorio: entro 48 ore doveva raggiungere il suo paese in Sicilia, Corleone. Egli e Riina sapevano che laggiù erano pronte misure di prevenzione, confino e. chissà, anche l'arresto. C

osi la « primula rossa di Corleone » diede l'incarico al suo fedele braccio destro, di andare al posto di polizia di Bitonto a chiedere una proroga al foglio di via, dicendo che Liggio stava male e non poteva affrontare un lungo viaggio in auto. Il controllo della polizia non lo mollò. Il questore di Taranto emise un secondo foglio di via: dopo essere stato dimesso dall'ospedale Liggio doveva raggiungere Corleone.

Dopo alcuni mesi, il presunto capo-mafia, che gli amici di New York e di Chicago chiamano « Tombstone » (pietra tombale) si recò a Roma nella clinica del dottor Bracci, il quale, con un intervento di chirurgia plastica gli ricostruì la vescica, quasi atrofizzata. Durante la degenza romana avrebbe ricevuto, fra le altre, la visita del rag. Buttafuoco, il consulente tributario arrestato per il rapimento « in concorso con ignoti » del giornalista siciliano Mauro De Mauro.

Il 19 novembre 1969 Liggio per evitare cinque anni di confino scomparve dalla clinica e fece perdere le sue tracce. Oggi è ricercato dalla polizia e dall'Interpol. Quando era a Taranto in ospedale, lo avvicinai per pochi minuti. Sorridendo mi disse: « Se siete venuto per il chiasso che si sta facendo dopo la sentenza di Bari, vi dico subito che io con le lettere non c'entro. Non sono proprio un idiota. Anzi, i miei avvocati hanno detto diverse volle, apertamente, che sono un uomo intelligente ».

Il processo che si apre domani a Bari ancora « per legittima suspicione » dovrebbe terminare il 23 dicembre.

Mario Dilio - La Stampa 1 dicembre 1970


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