Falsi lavori per ottenere misure alternative e vere prostitute diventate manager: la mafia dei Casalesi in Veneto
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MAFIA 41-BIS Falsi lavori per ottenere misure alternative e vere prostitute diventate manager: la mafia dei Casalesi in Veneto 10/03/2019 

Ramona passeggiava di notte sul marciapiede del Terraglio, strada di ville venete, di traffico lento e di ragazze dell’Est. La conoscevano bene anche i carabinieri di Mogliano per essersi precipitata un paio di volte in tacchi a spillo a denunciare le rapine subite nel buio della Statale trevigiana. «Svolgo l’attività di meretrice di fronte al ristorante Bacareto...», aveva messo per iscritto chiedendo di recuperare la borsetta con l’incasso della nottata.

Ramona l’impresaria
Nulla di strano se non fosse che la stessa giovane donna, all’anagrafe Ramona Mariana Ghiotu, 21 anni, rumena, risulta essere stata l’amministratore unico di una società di costruzioni operante nel Veneziano dall’anno 2000, la Pcm. Possibile? Lucciola e imprenditrice? La Guardia di Finanza ha voluto vederci chiaro e ha scoperto che la strana storia di Ramona non era un caso isolato. Anche la ventiquattrenne Stella Puscasu, sua «collega» di passeggio, spuntava infatti al vertice di una società, la Stella Cooperativa, questa con sedi a Casal di Principe (Caserta) ed Eraclea (Venezia) dove opera nel settore edile. Prostituta di notte e dirigente di giorno. E pure Adriana Baciu, altra giovane rumena, altra squillo con curriculum da manager delle costruzioni. Ma l’elenco è lungo: Alina Taraburca, Simona Trip, Petronela Ambrus, Annamaria Ilie, Geometra Tiliban, Ioana Weber...
Tutte ventenni dell’Est, tutte ragazze del Terraglio, tutte assunte in varie ditte dello stesso gruppo. Insomma, un fenomeno. Naturalmente nessuna delle giovani donne amministrava alcunché, né lavorava in queste ditte. Le loro erano finte assunzioni con veri contratti, studiati in modo da ottenere un duplice vantaggio: permesso di soggiorno per le ragazze straniere e introiti garantiti per la controparte, cioè i titolari delle imprese, che così avevano il controllo del racket.

La resistenza di Eraclea
Il gruppo in questione (che si articola in quindici società) non è infatti un esempio di trasparenza: Casalesi. A tirare le fila della Pcm, della Stella cooperativa e di svariate altre società come Poulifin, ABV Costruzioni, Donadio società cooperativa, Donadio costruzioni scarl, Basile costruzione eccetera, era il noto clan di camorra che ha messo solide radici a Nord Est e in particolare nel Veneto orientale.
Il tutto emerge dalle carte dall’indagine della procura Antimafia di Venezia, partita addirittura 20 anni fa, che lo scorso mese ha portato all’arresto di 50 persone, soprattutto gli uomini veneti delle famiglie di camorra, fra i quali spicca la figura di Luciano Donadio, considerato il super boss del Nord Est con base nel litorale veneziano, a Eraclea, dove è finito in carcere anche il sindaco-avvocato Mirco Mestre al quale viene contestato lo scambio politico-elettorale nelle elezioni del 2016.

Aperta parentesi: Eraclea, sul litorale veneziano, è il primo comune veneto in odore di camorra. Mestre, 44 anni, dopo l’arresto ha annunciato le dimissioni, contro le quali si sono schierati in molti: prima 300 cittadini e poi il suo vice Graziano Teso, pure lui indagato ma graniticamente contrario a gettare la spugna. Cosicché il Consiglio comunale rimane al momento in piedi, appeso alla scelta definitiva del sindaco: se verrà confermata cadrà. Nel contempo una commissione prefettizia valuterà l’eventuale scioglimento per mafia. Chiusa parentesi.

Dalla mala di Maniero a quella del Sud
Mafia e politica, quasi una novità per il Veneto. La mala del Brenta di Felice Maniero, storica organizzazione che ha avuto un ventennio il controllo criminale del territorio con circa 400 uomini, prediligeva infatti grandi rapine, sequestri, bische e spaccio alla corruzione della politica. Come pure non amava il taglieggio e l’usura di imprenditori e professionisti, altra attività che la nuova mafia calata al Nord ha esportato con efficacia. «Inutile chiedere il pizzo, i veneti difendono la proprietà fino alla morte», spiegava Maniero. Evidentemente qualcosa è cambiato nell’indole dei suoi conterranei, se si considera che i metodi violenti dei casalesi nei confronti di chi non pagava ha portato addirittura all’arruolamento di alcuni imprenditori nelle fila del clan. Una sorta di cambiamento genetico del Nord Est.
Al di là delle estorsioni, del riciclaggio, dell’usura, di un controllo mafioso del territorio che imponeva il pizzo alle imprese e il voto di scambio alla politica, dalla ponderosissima richiesta di misure cautelari del pm Roberto Terzo emerge poi questa diffusissima attività di finte assunzioni, altra novità criminale a queste latitudini.
Venivano assunte le prostitute, ma venivano assunti anche i detenuti o i familiari dei detenuti vicini al clan, e venivano assunti i migranti clandestini che invece con i casalesi non avevano nulla da spartire. Amici o no, l’obiettivo era sempre quello: denaro e potere. A danno naturalmente di chi le regole le rispetta, nonché delle casse pubbliche, Erario e Inps, ma anche di istituti di credito.

 

Le intercettazioni: «In Questura c’è chi ci fa le carte»
«Oltre che un modo per giustificare il trasferimento dei proventi di altri reati, le false assunzioni sono divenute, negli ultimi anni, la maggior fonte di guadagno del sodalizio tanto da divenire un vero e proprio sistema criminale», scrive il pm. Per esempio, nel corso di una conversazione telefonica intercettata, Franco Breda, imprenditore organico all’associazione, propone a Donadio di portare 100 clandestini a Milano, dietro un compenso di 2mila euro a persona, pagati dagli stessi migranti.
Breda: «I documenti li fanno tutti in Questura ... gli fanno già i licenziamenti dopo 15/20 giorni».
Donadio: «Ma i soldi quando ce li danno?».
Breda: «Me li danno immediatamente».
Donadio: «Al momento dell’assunzione?».
Breda: «Sì, in contanti».
Donadio: «Io le assunzioni le voglio vedere tutte, le devo firmare una per volta... poi mi ritrovo assunte 500 persone».
Breda: «Quante ditte hai da sfruttare?».
Donadio: «Abbiamo la Basile costruzioni, General Pavimenti, Pulifin... Duemila euro ciascuno io ci rimetto, i contributi li devo pagare per un mese, ci vogliono 7-800 euro a persona».
Breda: «Ti ho detto che lui (un tipo di Montebelluna) mi ha risposto “noi lavoriamo da anni, abbiamo la persona in Questura che ci fa le carte, noi paghiamo i contributi e tutto... dopo un mese sono fuori dalle balle”... Dobbiamo andare a Montebelluna, a Signoressa».

La frode della disoccupazione
Centinaia di migranti assunti e licenziati in breve tempo, dunque. Il tempo minimo necessario per ottenere l’indennità di disoccupazione. Che naturalmente non veniva riscossa dai finti assunti, ma dall’organizzazione. «Le società controllate dal sodalizio lucravano così trattamenti di disoccupazione ed altri benefici previdenziali», scrivono gli inquirenti. In questo modo i migranti si regolarizzavano, facendo figurare un lavoro che non avevano. Anche gli stipendi venivano pagati in modo del tutto fittizio, in apparenza regolare. Come?
«Il denaro era apparentemente erogato dalla società e annotato nei registri contabili oltre che con assegni inseriti in busta paga anche attraverso carte ricaricabili intestate sempre al personale dipendente. Gli stessi dipendenti (apparenti), dopo aver provveduto a monetizzare i titoli presso le banche, restituivano il denaro liquido ai capi del sodalizio. Nel caso delle carte ricarica il meccanismo era molto più semplice poiché le stesse erano consegnate a Donadio e trattenute da questi o da altri sodali che ne disponevano liberamente».

Nipoti, cognati e «comparielli»
Con lo stesso obiettivo, di ottenere in modo fraudolento l’indennità di disoccupazione, venivano ingaggiati anche familiari e amici. «Tra gli scopi associativi rientrava anche l’imposizione della manodopera ai più disparati fini tra i quali quello di consentire redditività agli accoliti, beneficiare del sussidio dell’indennità di disoccupazione, degli assegni familiari, assicurare entrate finanziarie a Donadio e riciclare denaro».
È il caso di Giuseppe Albino, nipote di Donadio, 14 mila euro di indennità di disoccupazione corrisposte dall’Inps per l’assunzione nella Poulifin e nella Donadio società cooperativa. Ed è il caso di Giacomo Fabozzi, nipote acquisito di Donadio, quasi 20 mila euro incassati dall’Inps, come dipendente della Enjoy e di altre società del gruppo; e di Guido Puoti, cognato di Donadio, apparentemente assunto e licenziato in varie imprese del Nord. «Ma di fatto non si mai allontanato da Villa di Briano, nel Casertano, dove risiede », scrive la procura. In un’intercettazione Donadio spiega le motivazioni del licenziamento: «Licenzia mio cognato come riduzione del personale, che così si fa la disoccupazione». Disoccupazione che per lui si è tradotta in circa 25 mila euro incamerati, netti e puliti. È andata peggio invece a Salvatore Cirillo, «compariello» di Donadio, («mettilo a lavorare come a Guiduccio... pure a questo... sempre alla Poulifin»), che invece ne ha incassati «solo» 10 mila.

Rapinatori, sfruttatori, spacciatori. Tutti detenuti, tutti assunti
Nessuno veniva escluso dalla grande frode. Neppure i detenuti amici dei casalesi. A coloro che si trovavano nella condizione di poter usufruire di benefici penitenziari alternativi, l’organizzazione non faceva mancare il proprio appoggio. In che modo? Semplice: assunzione fittizia. È successo con Maurizio Fraioli, condannato da gup di Venezia per una rapina commessa nel 2008, che risultava assunto alla Poulifin il 30 dicembre 2009, mentre era recluso. «La documentazione doveva servire a Fraioli per ottenere dei benefici», scrive il pm. Stesso discorso per Albano Alimadhi, arrestato per favoreggiamento della prostituzione, e Raffaele Celandro, figlio di un sodale dell’associazione poi deceduto. «L’avvocato dice che se Raffaele ha una richiesta di lavoro lo fa uscire», spiega al telefono il padre conversando con Donadio. Donadio chiama così il responsabile della Poulifin: «Senti un po’, l’ufficio ci sta ancora a Mogliano Veneto? Mi dovresti fare un piacere... dovrebbe venire a lavorare nel tuo ufficio il figlio del comparuccio, un paio di mesi perché dopo lo fanno uscire definitivamente , si può fare? Seguimi bene però eh, non è che deve effettivamente lavorare». Trattamento speciale anche per Giuseppe Mirizzi, pluripregiudicato per estorsione e spaccio. Un giorno la moglie di Mirizzi, Elena, bussa all’ufficio di Donadio e gli chiede il favore di essere assunta, in modo che il giudice conceda gli arresti domiciliari al consorte per accudire la loro bimba. Se la moglie risulta al lavoro, qualcuno si deve pure occupare della figlia. Donadio fa un paio di telefonate e in breve tempo la signora viene messa in regola.

Il trucco della sede
Poulifin, Donadio società cooperativa, Stella, Grazioso costruzioni, Donadio Costruzioni, Basile costruzioni, Mascali costruzioni... Tutte società che sviluppavano attività lecite, lavori nell’edilizia soprattutto in subappalto, e attività illecite. E tutte società che finivano in crisi di liquidità, in larga parte dovuta ai debiti verso l’Erario generati dal fenomeno delle false assunzioni e sistematicamente evasi. Cosicché venivano abbandonate e sostituite con altre: Enjoy, Dogi, Gsi, Imperial agency, «attraverso le quali i casalesi hanno svolto al Nord soprattutto attività illecita, verso l’Erario, verso l’Inps, e bancarotte». In tutto ciò si inserisce il trucchetto delle sedi sociali, che venivano scelte con oculatezza. «In circondari del Tribunale gravati da un elevatissimo carico fallimentare così da sfruttare gli inevitabili ritardi nella procedura fallimentare ed evitare agli amministratori formali della società le conseguenza civili e penali». Una sorta di tutela per chi prestava il proprio nome. Come Mariana, Stella, Adriana e le loro colleghe del Terraglio. Che poco sapevano di costruzioni, di amministrazione e di comando. Anche se i loro nomi figuravano al vertice delle varie società.


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