Strage di via D'Amelio: Il procuratore Giovanni Tinebra chiese al numero tre del Sisde Bruno Contrada di collaborare alle indagini
Home > NOTIZIE

 

NOTIZIE Strage di via D'Amelio: Il procuratore Giovanni Tinebra chiese al numero tre del Sisde Bruno Contrada di collaborare alle indagini 29/07/2018 

Mentre il Paese era drammaticamente piagato per una delle stragi più terribili della storia repubblicana, l’unico pensiero che sembrava affliggere il titolare delle indagini sull’eccidio che il 19 luglio 1992 portò alla morte il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina, Walter Cosina e Agostino Catalano, fu quello di lavorare “in sinergia” con uno degli uomini più chiacchierati dei servizi segreti italiani: quel Contrada che appena cinque mesi dopo verrà arrestato con l’accusa di essere vicino alle cosche mafiose, e quindici anni dopo condannato in via definitiva a dieci anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa (la Cassazione nel 2017 – quando ormai l’ex 007 aveva scontato la pena – ha revocato (ma non annullato) la sentenza di condanna per una discussa interpretazione del reato di concorso esterno in associazione mafiosa).

Nelle 1865 pagine con le quali la Corte d’Assise di Caltanissetta presieduta da Antonio Balsamo ha motivato la sentenza del Borsellino quater (condanna all’ergastolo dei boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, e a 10 anni di reclusione i “falsi pentiti” Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia), c’è spazio anche per il ruolo svolto da Tinebra nel contesto del “più grande depistaggio giudiziario della storia d’Italia”.

“E’ appena il caso di osservare – si legge nella motivazione della sentenza – che la rapidità con la quale venne richiesta la irrituale collaborazione del Dott. Contrada, faceva seguito alla mancata audizione del Dott. Borsellino nel periodo di 57 giorni intercorso tra la strage di Capaci e la sua uccisione, benché lo stesso magistrato avesse manifestato pubblicamente la propria intenzione di fornire il proprio contributo conoscitivo, nelle forme rituali, alle indagini in corso sull’assassinio di Giovanni Falcone, cui egli era legato da una fraterna amicizia”.

Anche se a Caltanissetta non sono stati condannati i pezzi dello Stato che hanno tradito, le motivazioni della sentenza sono gravissime, poiché spiegano le modalità del depistaggio scattate subito dopo la morte di Borsellino. La storia la conoscono tutti: si prende un uomo di pezza come Vincenzo Scarantino (pregiudicato di mezza tacca con una intelligenza limitata e un livello di scolarità molto basso), gli si promettono benefici futuri, lo si istruisce a dovere nel “confessare” il furto di una macchina servita come autobomba per l’attentato, si accusano (e si fanno condannare) ingiustamente nove persone che con la strage non c’entrano niente, si fa credere all’opinione pubblica che lo Stato ha vinto, e così il depistaggio è servito. Per vent’anni. Tanti quanti ne occorrono perché la vicenda possa deragliare dal piano giudiziario a quello storico, con alcuni dei protagonisti della “zona grigia” che nel frattempo sono morti di vecchiaia o di malattia, e i politici che quasi sempre dormono sonni tranquilli.

“Deve ritenersi che lo Scarantino – scrivono i giudici di Caltanissetta – sia stato determinato a rendere le false dichiarazioni da altri soggetti, i quali hanno fatto sorgere tale proposito criminoso abusando della propria posizione di potere e sfruttando il suo correlativo stato di soggezione”.

Vincenzo Scarantino, seguitano i magistrati nisseni, “non è stato mai coinvolto nelle attività relative al furto, al trasporto, alla custodia e alla preparazione dell’autovettura utilizzata per la strage. E’ quindi del tutto logico ritenere che tali circostanze siano state a lui suggerite da altri soggetti, i quali, a loro volta, le avevano apprese da ulteriori fonti rimaste occulte”.

Secondo i giudici siciliani, immediatamente dopo la strage, i servizi di informazione rivolgono una “particolare attenzione” a Scarantino e alla sua famiglia. Tre mesi dopo via D’Amelio – 10 ottobre 1992 – la “nota” su Scarantino è già pronta. Da chi? “Dal capo del centro Sisde di Palermo” che la trasmette alla Squadra mobile di Caltanissetta, “su diretta richiesta del dott. Tinebra, benché – sottolinea la sentenza dei giudici nisseni – non fosse possibile instaurare un rapporto diretto tra i servizi di informazione e la Procura della Repubblica”.

Dunque, in quei momenti drammatici, nella testa di Tinebra, oltre all’esigenza di collaborare con Contrada, c’è un altro pensiero fisso: sollecitare il Sisde, malgrado il divieto, a inviare agli investigatori di Caltanissetta un rapporto su Scarantino per accreditarne il ruolo come autore della strage. Quel che è lecito chiedersi è se Tinebra si muove autonomamente o è manovrato dall’alto.

Ai magistrati nisseni, Contrada dichiara di avere ricevuto, nelle ore successive alla strage, la telefonata del dottor Sergio Costa, funzionario di Polizia, “aggregato nei ruoli del Sisde”, e genero dell’allora Capo della Polizia Vincenzo Parisi. “Costa – afferma Contrada – mi dice che per incarico del suocero… ero pregato di andare dal Procuratore della Repubblica di Caltanissetta Giovanni Tinebra che desiderava parlarmi… Ed io andai… dal dottor Tinebra, che non conoscevo… e il dottor Tinebra mi disse se io ero disposto a dare una mano, sempre in virtù della mia pregressa esperienza professionale, per le indagini sulle stragi”.

Quindi, secondo quanto dice Contrada, c’è un livello superiore che si muove per sollecitare il coinvolgimento dei servizi segreti nell’indagine. E anche in questo caso sorge spontanea la stessa domanda: il Capo della Polizia Parisi (anche lui morto) si muove da solo o riceve l’input da figure superiori (in questo caso politiche) da cui dipende? Non lo sappiamo.

Il 23 luglio 1994, a quattro giorni dal secondo anniversario della strage, Tinebra dichiara pomposamente all’Ansa: “Scarantino non ha subito nessun tipo di violenza o di imposizione: si è autonomamente deciso a collaborare, e ciò l’ha fatto in maniera che ci ha pienamente convinti. È un’operazione che conduciamo con consueti, usuali metodi”. E le torture, le minacce, il lavaggio del cervello di cui disperatamente parla il “picciotto della Guadagna”? Non esistono, secondo Tinebra.

Peccato che appena tre mesi dopo (13 ottobre 1994) i Pm Roberto Saieva e Ilda Boccassini – allora in servizio alla Procura di Caltanissetta – lo smentiscano clamorosamente parlando di “inattendibilità delle dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo in ordine alla partecipazione alla strage di Via D’Amelio”, al punto da “riconsiderare il tema della attendibilità di tale collaboratore”. Ma Tinebra tira dritto per la sua strada e si reca pure nelle scuole a fare conferenze sulla mafia e sulla legalità.

Dina Lauricella del Fatto quotidiano, che assiste alle udienze del Borsellino quater, il 6 giugno 2015 scrive: “L’ex picciotto della Guadagna (il quartiere palermitano di Scarantino, ndr.) racconta che l’allora procuratore di Caltanissetta, il dottor Giovanni Tinebra, provava a lenire il suo senso di colpa spiegandogli che avrebbe dovuto prendere la sua falsa collaborazione come un lavoro, mentre la dottoressa Anna Maria Palma lo consolava spiegandogli che i nomi che lo spingevano a fare, nella fantasiosa ricostruzione della strage, erano comunque colpevoli di altri crimini”.
Da un’intervista che il periodico online Linkiesta fa alla deputata radicale Rita Bernardini emerge che “in un caso, addirittura, si parlò di Tinebra come di un Pm che informava prima i soggetti delle sue indagini per i quali avrebbe richiesto l’archiviazione. Gli indagati, in quel caso, si chiamavano Berlusconi e Dell’Utri”.

In compenso Tinebra (indicato da più parti come appartenente alla massoneria), dopo quelle indagini che per anni ci hanno consegnato dei falsi colpevoli, viene “promosso”: prima come direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), e successivamente come procuratore generale della Repubblica di Catania.

Su di lui pesano delle gravi ombre su un comportamento ritenuto non sempre lineare, come quando nel 2014 viene sottoposto a procedimento disciplinare dal Consiglio superiore della magistratura per una condotta “gravemente lesiva dell’immagine di magistrato”.

Quando diventa procuratore generale a Catania, i Pm di Palermo lo citano come testimone al processo Trattativa, processo che con le vicende di via D’Amelio è strettamente collegato. Lui esibisce un certificato medico in cui vengono diagnosticati problemi di memoria e di reazioni emotive. Contemporaneamente presenta richiesta al Csm per concorrere al posto di procuratore capo della Repubblica di Catania. La poltrona non gli verrà mai assegnata.

Muore il 6 maggio 2017, all’età di 76 anni. Su Wikipedia, a proposito di Tinebra, si legge: “Fu uno dei magistrati più impegnati nella lotta contro la mafia, protagonista di alcune tra le più importanti inchieste sulla criminalità organizzata e processi epocali, tra cui le stragi di Capaci e di via D’Amelio”.

linformazione

Luciano Mirone
 


Google News Penitenziaria.it SEGUICI ANCHE SU GOOGLE NEWS