Alessandria: sei morti, quindici feriti. Conclusa nel sangue la rivolta in carcere
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STORIA Alessandria: sei morti, quindici feriti. Conclusa nel sangue la rivolta in carcere 11/05/1974 

Un massacro. La rivolta dei tre carcerati di Alessandria si è conclusa con una strage. II bilancio supera le più pessimistiche previsioni, cinque morti e un moribondo, una quindicina di feriti più o meno gravi. Praticamente, nessuno dei banditi e degli ostaggi è rimasto illeso nella stanza dove erano barricati. Alle vittime di oggi si devono aggiungere quelle di ieri: un morto e un morente. Sei assassinati, quindi, e due in fin di vita.

E' spaventoso, è pazzesco. Tutto è accaduto nel pomeriggio, alle 17, in una ventina di minuti. La storia della strage è agghiacciante nella sua semplicità. Si decide di passare all'azione e togliere l'iniziativa ai banditi, stanarli. Si lancia una granata lacrimogena. La reazione dei ribelli è immediata, infernale: scaricano le due pistole nel mucchio dei sedici ostaggi. Li accoltellano, irrompono i carabinieri, che fanno fuoco sui banditi. Il primo a cadere è Domenico Di Bona, da terra tenta ancora di sparare ad un appuntato, una scarica di mitra lo finisce. Cesare Concu, il capo della ribellione, ha il petto sforacchiato da una sventagliata di proiettili, ed è uno dei morenti. Il terzo, Evandro Levrero, è ferito ma non gravemente.

Sono morte, uccise dai banditi (almeno, questa è la versione ufficiale), due delle guardie carcerarie prese in ostaggio: il brigadiere Gennaro Cantiello, 35 anni, due figli, e l'appuntato Sebastiano Gaeta, 40 anni, anch'egli con due figli.

Assassinata in maniera barbara la signora Graziella Giarola Vassallo, 34 anni, assistente sociale, che ieri mattina si era volontariamente messa nelle mani dei banditi, sicura di riuscire a convincerli a rinunciare al folle tentativo di evasione. Le hanno sparato alla gola. Tra i feriti gravi vi sono due guardie carcerarie, anch'esse ostaggi. Gli appuntati Pietro Caporaso e Andrea Tuia, colpito da infarto. Feriti gravemente alcuni dei professori e dei detenuti che i rivoltosi avevano fatto prigionieri.

Tra i detenuti feriti, ma non in modo grave, vi è il conte Teobaldo Martinengo, che sta scontando l'ergastolo per il clamoroso «delitto dei due laghi». Venti maledetti minuti di fuoco, una strage dopo una nottata quieta e una giornata senza avvenimenti drammatici, quando ormai si diffondeva l'ottimismo, c'era la convinzione che si sarebbe finiti con il cedere alle richieste dei ribelli. Altri, invece, ritenevano che i rivoltosi, dopo la tracotanza delle prime ore, si fossero resi conto di non avere scampo e fossero decisi alla resa. Vi era perfino chi sosteneva che fra i tre fosse sorto il disaccordo. Ora si sa che non è vero, ma oggi pomeriggio lo si voleva credere nella speranza o nella illusione che tutto stava per finire e che gli ostaggi sarebbero presto tornati liberi. C'era molta fiducia, ecco, ed aumentava con il passare delle ore.

Una notte quieta, si è detto. E' stata una lunga veglia nel carcere e all'esterno, nella piazzetta affollata di carabinieri, poliziotti e infermieri. I tre banditi con le loro vittime (cinque agenti di custodia, sei insegnanti della scuola del carcere, un'assistente sociale e altri sei detenuti) sono arroccati in un piccolo locale, quattro metri per tre, al fondo del lungo corridoio dell'infermeria. Per terra vi sono materassi. Gli ostaggi vi sono ammucchiati, tutti hanno i polsi legati con bende di garza. Ieri hanno visto ammazzare e sono atterriti, si fanno coraggio a vicenda, si sforzano di non fare nulla che possa irritare i banditi. Di tutti, la signora Giarola Vassallo è la più salda, la più fiduciosa.

Viene l'alba, arrivano nella piazza attacchini ad affiggere ai muri manifesti listati a lutto dell'Ordine dei medici: «La follia omicida di detenuti in rivolta ha barbaramente falciato la vita del dottor Roberto Gandolfi...». E c'è anche il professor Campi nella sala di rianimazione dell'ospedale con il capo trapassato da una rivoltellata. Che cosa accadrà ora? C'è l'ultimatum dei rivoltosi: se alle 9 non avranno avuto un pulmino per andarsene, uccideranno un ostaggio ogni mezz'ora.

Sono le cinque, è giornata di sole. Ammalati in pigiama alle finestre dell'ospedale. «Si sa niente?». «Niente, tutto tranquillo». Arrivano agenti con i cani poliziotti e tiratori scelti con il giubbotto azzurro antipallottola, hanno carabine «Krico» calibro 22 con cannocchiale, hanno mitragliette con caricatori da quaranta colpi. Sono una decina, vanno ad appostarsi in uno dei cortili del carcere, quello detto «della lavanderia», perché di lì dovrebbero passare i rivoltosi in caso di evasione.

Alle 5,45 dall'interno dello stanzino Concu grida: «Avete preparato il pulmino?». Il sostituto procuratore Parola va a parlamentare con loro. I rivoltosi: «Fateci uscire, suppiamo che tenterete di farci fuori, ma non c'importa. Vogliamo morire liberi, in strada, fuori di qui». Il dottor Parola ha portato con sé anche la madre del Di Bona, una donnetta grigia e curva, in lacrime. Supplica il figlio che la tratta con asprezza: «Mamma, va via, non sono più un bambino».

Alle 6,30 si trova un pulmino, un «Ford Custom» azzurro con quindici sedili e i finestrini vengono mascherati con carta opaca e scotch perché questa è una delle condizioni, viene lasciato scoperto soltanto il vetro davanti al posto di guida. Si controllano olio, acqua, si fa il pieno di benzina sufficiente per 350 chilometri. Altre richieste dei ribelli. Della garza, una carta stradale del Piemonte e Lombardia. Sono subito accontentati? Perché tanta garza? S'indovina il loro piano, fasciarsi il volto e fasciarlo a parecchi prigionieri, scambiandosi anche gli abiti tra di loro, sicché non sia facile ai tiratori, ai «cecchini», individuarli.

Poi i rivoltosi chiedono di parlamentare più volte coi giornalisti alessandrini. Di questi incontri si dice in un'altra parte. E si dice anche della loro proposta, inaccettabile, di avere i giornalisti come «accompagnatori», in pratica altri ostaggi, nella loro sortita. Gli ostaggi sono stremati dall'angoscia e dalla veglia. «Guardateci, non ne possiamo più», dicono ai giornalisti. Un altro: «Non resistiamo più, fatela finita. Accontentateli, lasciateli andare o ci ammazzeranno tutti». Sono sempre legati. Uno dei detenuti tenuto in ostaggio, Fagella, viene lasciato libero. Un altro, Olivasso, consegna alla giornalista Camagna il «diario» della giornata di ieri e di stamane. Ci sono annotazioni di ambiente («Una gatta, incinta, girovagava da un punto all'altro dell'infermeria»), considerazioni sugli altri ostaggi («Il dottor Gandolfi sorride, per lui è un piccolo scherzo. Luì è un fatalista, l'assistente sociale un'ingenua»), frasi deliranti («La scena è pacifica, calma, distesa anche se si ha la morte sulle labbta. Si sorride!), C'è un'accusa. «Sono testimone che i carabinieri hanno ucciso due ostaggi», ma i carabinieri sollecitano l'autopsia perché non vi siano dubbi che a sparare su Gandolfi e Campi siano stati i banditi.

Continua l'attesa, mentre l'ora dell'ultimatum è ormai passata e i ribelli non attuano la loro mostruosa minaccia: un omicidio ogni mezz'ora. S'incomincia a sperare. Si sente dire: «Hanno bluffato, ecco. Era soltanto una minaccia, contavano di intimorire. Invece ora sanno che hanno perso la partita. Non gli resta che cedere». Viene il sindaco Borgoglio, vengono parlamentari e rappresentanti di tutti i gruppi politici: «Vediamo di fare qualcosa, perché non si accoppino più altri ostaggi e poliziotti». La giunta comunale invia al presidente del Consiglio un telegramma nel quale, dopo aver espresso «il massimo sdegno...» e le «preoccupfazioni vivissime a salvaguardia dei sedici ostaggi», si chiede un intervento «per non provocare altre inutili vittime, consapevoli che la salvezza della vita degli ostaggi non sarà interpretata come debolezza dello Stato democratico». Il sindaco, un sacerdote, un assessore, ufficiali di polizia e dei carabinieri si offrono come ostaggi o di accompagnare i rivoltosi nel tratto scoperto, sotto il tiro dei fucili di precisione. Proposta respinta dal procuratore generale Della Veneria: «Non possiamo concedergli altri ostaggi». Dice il magistrato: «Non si può ammettere che lo Stato sia calpestato. Se si ammette, episodi come questo si ripeteranno a catena». E' irremovibile. Altri, invece, sono propensi a cedere. Dice il procuratore Della Veneria: «Se li lasciamo andare con gli ostaggi, niente ci assicura che questi avranno salva la vita e saranno liberati. I tre rivoltosi sono delinquenti incalliti, cinici, esaltati, pazzi».

Dice il procuratore generale: « Abbiamo deciso di passare all'azione alle 17 ». Si afferma che si era sentita una esplosione nello sgabuzzino dell'infermeria e che i rivoltosi avessero incominciato ad attuare la minaccia del loro ultimatum di ieri: uno ogni mezz'ora.

Nell'azione vengono impiegati 15 carabinieri volontari, guidati dai colonnelli Pagani e Mussi, e dieci guardie carcerarie agli ordini del maggiore Raffa. Gettano una granata lacrimogena e (sono le 17,10) si scatena il finimondo. Nessuno potrà mai ricostruire esattamente i venti infuocati minuti seguenti, né gli assalitori né i superstiti della tragica stanzetta. Il dott. Gay, il solo degli ostaggi in grado di parlare, mi dice: « Ho sentito uno scoppio, ero vicino al gabinetto e mi sono gettato a terra. Sparavano, sparavano. Non so altro. Ero accecato dai lacrimogeni. Mi sono sentito sollevare e sdraiare su una barella ».

Dall'esterno del carcere sentiamo cinque, dieci bombe lacrimogene esplodere. Colpi secchi di pistola, colpi di mitra. Nessuno sa che cosa stia accadendo, nemmeno i molti carabinieri e le guardie che sono nella piazza lo sanno. Tutto è avvenuto all'improvviso, senza segni premonitori, anzi dopo che il pulmino era stato portato nel cortile della lavanderia e i fotografi e i cineoperatori si erano ammassati davanti al cancello della prigione, pronti a riprendere la sortita, con uno dei banditi al volante e gli ostaggi ammassati dietro. Invece, all'improvviso, gli spari e la fucileria crescono. Il cielo si è fatto cupo, tira vento di temporale. Fuoco a non finire. Ma nessuno sembra pensare al peggio. Si immagina una azione dimostrativa: energica, ma incruenta. Si dice: i carabinieri saranno cauti, i rivoltosi non penseranno davvero a sparare sugli ostaggi. Perché non pensare che sarà così? Perché è un pensiero spaventoso e che istintivamente si rifiuta. Ma poi si spalanca il portone di ingresso del carcere e si sente gridare dall'interno: « Barella ». Allora sembra che tutti impazziscano. Saltano i nervi, c'è sgomento, paura, terrore. C'è chi scappa, cade, viene calpestato. Vedo gente picchiarsi e non si capisce perché. Continua la sparatoria, l'odore dei lacrimogeni si spande e fa tossire, piangere.

La sparatoria continua. Sirene di ambulanze. Infermieri escono di corsa con un ferito che si torce su una barella. Non si sa chi sia, dove è colpito. E' un attimo: caricato sull'ambulanza, corsa all'ospedale distante cento metri. Ma ecco degli infermieri con barelle e ancora feriti. Contiamo: tre, quattro, cinque barelle. Poi non si riesce a tenere il conto, perché tutto avviene freneticamente, i barellieri che vanno si scontrano con quelli che escono. Non si vedono nemmeno tra di loro, con gli occhi pieni di gas e di lacrime. Mordono fazzoletti per proteggersi dall'aria avvelenata. Presto, presto. Ancora feriti. Sento uno di loro gridare: « Lasciatemi dai miei compagni che sono morti ». Feriti con ancora le garze ai polsi, che li legavano e che i carabinieri hanno strappato per sdraiarli sulla barella.

Feriti, ma qualcuno sembra morto. Una guardia carceraria insanguinata urla sulla lettiga: «Mia moglie, dov'è? ». Altri sono scossi da tremiti. E' spaventoso vederli. Piangono senza ritegno. Molte guardie carcerarie vedono i loro colleghi portati in ospedale e scoppiano in lacrime. Sono uomini con i capelli bianchi che piangono come bambini. Uno spettacolo agghiacciante: il corpo su una barella è tutto nascosto, scoperta e penzolante vi è soltanto una mano con fede. Una mano di donna, troppo bianca. Nessun dubbio, è l'assistente sociale Giarola Vassallo, ed è morta. 

Le ruvide coperte strappate da una brandina in una cella con le quali l'hanno nascosta ci risparmiano uno spettacolo orrendo. La donna ha la gola tagliata e il capo trapassato da un proiettile. Si dice che l'assassino è Di Bona. Corre voce che la donna sia stata uccisa prima dell'azione della polizia, il corpo infatti è freddo. E' un punto da chiarire. Il procuratore Della Veneria ritiene che sia possibile, il capo della Criminalpol, Montesano, non si pronuncia prima dell'autopsia e dell'inchiesta.

Quindici, venti barelle (anche dei carabinieri sotto choc o intossicati dai gas) e altrettante corse all'ospedale. In una lettiga ho visto portar fuori Concu. Maglietta marrone arrotolata sul petto, che era rosso di sangue. Pareva senza vita. E' morto alle 22,10 al Centro di rianimazione. Le barelle arrivano al pronto soccorso dell'ospedale. I medici danno un'occhiata ai feriti che arrivano a ritmo crescente, per qualcuno fanno cenno di no. Indicano una stanza ove si vanno allineando i morti. Fuori da questa stanza, pianti, gemiti, urla. « Maledetti », grida uno dei professori, e c'è gente che pare inebetita e non fa che ripetere: « Perché, perché, perché? ». 

La Stampa 11 maggio 1974


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