Boss della camorra al 41-bis scoperto mentre telefonava in cella nel carcere di Parma
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MAFIA 41-BIS Boss della camorra al 41-bis scoperto mentre telefonava in cella nel carcere di Parma 30/11/2019 

Giuseppe Gallo è tato scoperto mentre telefonava dalla sua cella, nonostante il regime speciale del 41-bis a cui era sottoposto nel carcere di Parma. La notizia è stat diffusa dal settimanale L'Espresso e Il Mattino.

I detenuti al 41 bis, il regime speciale pensato in passato come il carcere “impermeabile” per i mafiosi, adesso, di fatto, è diventato permeabile. Non è più il “carcere duro” di venticinque anni fa, tutto è cambiato, e ora i boss riescono pure a comunicare con l'esterno attraverso telefoni cellulari. Nella cella di uno dei capi della camorra, detenuto al 41bis a Parma, Giuseppe Gallo, detto “Peppe o pazzo”, sono stati trovati tre telefoni, un Iphone e due apparecchi Android, che il camorrista teneva nascosti in cella. Tutti e tre perfettamente funzionanti e dotati di schede sim sulle quali sono state avviati accertamenti. La scoperta è stata fatta dagli agenti del Gom (gruppo operativo mobile) della Polizia Penitenziaria e da quelli del Nic (nucleo investigativo centrale) e di questo rinvenimento è stata informata la procura nazionale antimafia.

Il camorrista Gallo utilizzava quasi quotidianamente il cellulare, e indagini sono in corso per accertare con chi parlava e soprattutto se questi telefoni venivano utilizzati o messi a disposizione anche da altri detenuti. È uno dei primi casi in cui si scopre che un detenuto al 41 bis utilizza il cellulare. Tutto ciò fa pensare ad un allentamento di questo regime carcerario speciale che aveva come obiettivo quello di impedire i collegamenti con l'esterno. Sempre più spesso, invece, si scoprono telefoni cellulari nei reparti dei detenuti che sono in alta sicurezza, ma al 41bis non era mai accaduto fino adesso, almeno non risulta ufficialmente.

Il controllo dei 41bis è affidato agli agenti del Gom, un gruppo non “speciale” ma specializzato, chiamato a operare su problemi specifici come la detenzione dei boss. Sono agenti poco noti al pubblico, di notevole competenza e capaci di lavorare con grande sacrificio. Il loro reparto, anno dopo anno, viene ridimensionato per numero di agenti, mentre i detenuti sottoposti allo speciale regime aumentano sempre di più. Nell’ultimo anno il carcere “impermeabile” ha subito una serie di criticità per l’applicazione di una circolare varata due anni fa. Questo provvedimento, impugnato dai detenuti, ha portato la magistratura di sorveglianza a renderlo difforme tra i vari istituti. La volontà di uniformare questo regime detentivo si è così dimostrata un tentativo poco lungimirante di disciplinare gli aspetti della vita dei mafiosi carcerati.

Il progressivo svuotamento dei contenuti del regime speciale, ad opera delle numerose pronunce della magistratura di sorveglianza, ha avuto risvolti negativi sia sulle finalità del regime ma anche sull'organizzazione dell'intero sistema che si occupa della gestione di questi detenuti. In più c'è pure la difficoltà per gli agenti di attuare le disposizioni quando si trovano davanti a strutture carenti che non permettono di far osservare al meglio il 41 bis e in tanti lamentano pure la mancanza di direttive specifiche a livello centrale del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria su questo regime speciale. Il 41bis sembra essere stato dimenticato o lasciato al suo destino.

La scorsa commissione parlamentare antimafia, presieduta da Rosy Bindi, aveva affrontato nella relazione conclusiva questo regime di detenzione, sostenendo che «rappresenta un insostituibile corollario della legislazione antimafia di cui si è dotato il nostro Paese». Per poi aggiungere, usando le dichiarazioni rese in commissione dal procuratore antimafia Maurizio de Lucia che «il regime del 41-bis ha cambiato un panorama che prima della sua introduzione era assolutamente devastante, perché l’espressione “grand hotel Ucciardone” è stata coniata non dalla stampa o dai magistrati, ma proprio dai collaboratori di giustizia. Tutti, infatti, hanno raccontato cos’era il carcere (..) che non interrompeva il carattere di continuità di governo dei capi: quindi per loro era indifferente essere fuori o dentro il carcere, perché continuavano a comandare».

Secondo la commissione antimafia «Se, non si interrompessero, soprattutto per le organizzazioni mafiose di tipo verticistico, i contatti delittuosi di taluni detenuti “qualificati”, lo stato detentivo dei soggetti per i quali ricorrono “gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica” ed “elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale”, si rivelerebbe un fattore neutro per le associazioni criminali che continuerebbero a operare normalmente, perfino per le questioni di “straordinaria amministrazione”, così vanificando gli sforzi compiuti nella lotta alle mafie e le stesse finalità della pena».

Nella relazione veniva evidenziato che «numerose vicende registrate negli ultimi anni hanno dimostrato come, in effetti, l’istituto si sia rivelato indispensabile. È stato grazie all’articolo 41-bis che, per fare solo un esempio, la commissione provinciale di Cosa nostra non si è potuta ricostituire quando i “capi mandamento” della Sicilia occidentale, alla fine del 2008, necessitavano di rifondare la struttura di vertice che potesse consentire loro di tornare a realizzare, testualmente, “le cose gravi”. La necessaria autorizzazione del capo in carica, Totò Riina, proprio perché ristretto al “carcere duro”, tardava ad arrivare, sì da consentire all’autorità giudiziaria di intercettare le conseguenti agitazioni della consorteria mafiosa e, dunque, di interrompere, con gli arresti, quel pericoloso disegno criminale che avrebbe riportato la Sicilia nei suoi anni più bui».

La commissione antimafia concludeva dicendo: «Il regime speciale continua a rivelarsi un importantissimo supporto per il contrasto alla criminalità mafiosa. Proprio per questo, lo Stato dovrebbe compiere un ulteriore sforzo per fornire le strutture adeguate senza le quali si rischia di vanificare le restrizioni adottate e di conferire loro una portata afflittiva contraria ai principi dell’ordinamento.

L’adeguatezza riguarda, oltre che la creazione – mediante nuovi istituti o la riorganizzazione di quelli preesistenti – di penitenziari “dedicati”, anche l’aspetto sanitario, al fine di garantire ai detenuti tutte le cure e le assistenze necessarie, senza per ciò affievolire la tutela delle esigenze di ordine pubblico.

Per il resto, il quadro normativo, dopo gli interventi legislativi, appare idoneo al suo fine, anche se alcuni miglioramenti sono ancora possibili, come in tema di formazione dei gruppi di socialità e di uniformazione della giurisprudenza delle magistratura di sorveglianza, nei termini già indicati nel corso della presente relazione. Con riferimento alle prassi applicative, deve segnalarsi la preoccupazione sulle interpretazioni “umanitarie” che, dal campo dei sacrosanti diritti dei detenuti, si spostano sul sistema complessivo della prevenzione che viene irrimediabilmente compromesso, come avvenuto in tema di colloqui con l’esterno e di accesso alla stampa da parte dei detenuti, nelle accezioni chiarite nella pagine precedenti. Stessa preoccupazione si manifesta con riguardo all’interpretazione dei presupposti che danno luogo all’applicazione, prima, e alla proroga, poi, del regime speciale, che se non rapportate rigorosamente ai “gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica”, può condurre a un’estensione considerevole dell’articolo 41-bis, sì da far implodere, alla lunga, l’istituto e, comunque da non assicurare, per i detenuti che effettivamente creano una situazione di pericolo, il funzionamento rigoroso del sistema».

Intanto i mafiosi iniziano a telefonare dalle loro celle.

L'Espresso

 

Nessun contatto con l’esterno, colloqui con i familiari limitati e controllati, isolamento dagli altri detenuti. In poche parole, il carcere duro riservato a boss e mafiosi per evitare che comunichino con gli affiliati liberi. Invece, il boss che per anni si è finto pazzo, percependo anche la pensione di invalidità, aveva tre smartphone in cella al 41bis. La scoperta è stata effettuata nel carcere di massima sicurezza di Parma, dove da mesi è detenuto Giuseppe Gallo, noto negli ambienti della camorra napoletana con i soprannomi «scignetella» e «Peppe ‘o pazzo», 43enne di Boscotrecase e capo del clan Gallo-Limelli-Vangone di Boscotrecase, una delle cosche più ricche, potenti e feroci della provincia.

Poche settimane fa, alla moglie è stato sequestrato un impero milionario, una parte dei beni nella disponibilità della cosca che secondo l’Antimafia superano i 100 milioni. Tre giorni fa Gallo è stato condannato in appello a 20 anni per aver partecipato al duplice omicidio di Massimo Frascogna e Ruggiero Lazzaro, nella faida innescata dagli Scissionisti a nord Napoli. Nella stessa giornata, collegato in videoconferenza con il tribunale di Torre Annunziata dove è in corso un altro processo sul traffico di droga, ha chiesto la parola ed ha attaccato platealmente alcuni collaboratori di giustizia. In particolare Antonio Maresca, ex imprenditore del settore catering al soldo del suo clan, accusato di essere «un bugiardo e anche un cattivo pagatore».

Uno dei pochi boss di camorra della provincia a poter godere di un nascondiglio a Scampia durante la sua latitanza, per anni Giuseppe Gallo era riuscito a evitare processi e detenzione grazie all’attestazione di una schizofrenia, una patologia che gli permetteva di incassare 720 euro mese di pensione di invalidità grazie alla connivenza di alcuni medici. Per il sistema sanitario campano era pazzo, per l’Antimafia uno spietato boss di camorra. Anni di indagini hanno permesso di dimostrare la seconda tesi e dal 2010 è detenuto al regime di massima sicurezza riservato ai capi di mafia più pericolosi. Tra un tentativo di suicidio e una perizia psichiatrica, Gallo è stato condannato in diversi processi e sta scontando ad oggi 20 anni definitivi per traffico internazionale di stupefacenti, con altre condanne pendenti: a parte quella per il duplice omicidio, anche altri 30 anni di reclusione per il rapimento, il pestaggio e le torture a due fratelli che non avevano pagato un carico di droga.

 

Detenuto al 41bis, appunto, ieri mattina gli agenti del Gom (gruppo operativo mobile) della Polizia Penitenziaria e quelli del Nic (nucleo investigativo centrale) hanno scovato nella sua cella addirittura tre telefonini. Un iPhone e due apparecchi Android, tutti perfettamente funzionanti e dotati di schede sim sulle quali sono state avviati accertamenti. Gallo – sostengono gli investigatori – utilizzava quasi quotidianamente il cellulare e sono in corso indagini per accertare con chi parlava e soprattutto se questi telefoni venivano utilizzati o messi a disposizione anche da altri detenuti. Di questo rinvenimento, ovviamente, è stata informata la procura nazionale antimafia: Giuseppe Gallo, infatti, è il primo detenuto al 41bis trovato in possesso di cellulari, almeno il primo di cui si ha conoscenza.

Ieri, dunque, è stato scoperto per la prima volta in Italia che anche il regime del carcere duro è permeabile. Una falla incredibile, sulla quale sono in corso le indagini. Innanzitutto sui contatti avuti da Gallo direttamente dal carcere grazie ai suoi smartphone. Ma anche su chi ha frequentato negli ultimi mesi la cella del boss – tra personale del penitenziario, guardie, medici – che possano aver avuto contatti con lui. Infine, sui pochi parenti ancora autorizzati ai colloqui. Nel frattempo, il suo difensore, l’avvocato Ferdinando Striano, ha preferito non commentare l’insolito ritrovamento.

Il Mattino

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