Ecco come le donne boss della camorra comunicano dal carcere gli ordini ai clan
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MAFIA 41-BIS Ecco come le donne boss della camorra comunicano dal carcere gli ordini ai clan 04/06/2018 

20 ottobre del 2010: una data che segna l’epilogo di una lunga e complessa attività investigativa che si è protratta per oltre tre anni e che ha consentito di raccogliere una serie imponente di elementi di prova a carico degli indagati.

Nel corso di un’operazione anti-camorra della squadra mobile di Napoli vengono arrestati 16 presunti affiliati al clan Aprea tra cui tre sorelle del capoclan Vincenzo Aprea, Lena, Giuseppina e Patrizia accusate di aver ricoperto un ruolo di spicco a capo dell’organizzazione.
Conquistano così la ribalta mediatica le donne del clan Aprea, sorelle di quattro boss, le cui gesta vengono narrate nella deposizione del collaboratore di giustizia Salvatore Manco.

Alle donne di casa Aprea vengono contestati i reati di associazione per delinquere di stampo camorristico e omicidio. Dalle indagini emerge che le sorelle Aprea gestiscono le casse del clan, pagano gli stipendi agli spacciatori e agli estorsori del pizzo, oltre a provvedere al sostentamento economico degli affiliati finiti in carcere. Controllavano scrupolosamente tutte le entrate e gestivano anche le uscite, erano proprio loro a “fare gli stipendi” agli affiliati.

Arresto clan Aprea Giuseppina ApreaIl clan Aprea è attivo da decenni nel quartiere di Barra, nella periferia orientale di Napoli e si è distinto per la ferocia con cui ha condotto le “guerre” per il dominio nel quartiere. Gli Aprea ebbero un ruolo di spicco in diversi cruenti agguati messi a segno a Ponticelli, oltre che nella faida con il clan Celeste-Guarino, i cosiddetti “scissionisti” di Barra.

Le indagini della polizia hanno poi provato che Lena Aprea era divenuta una vera e propria “portavoce ufficiale” del capoclan Vincenzo, oltre che responsabile della gestione delle piazze di spaccio del clan e che Giuseppina Aprea, invece ricopriva il ruolo di dirigente della piazze di spaccio – soprattutto di quelle di cocaina – gestite dal clan.

Nel corso dell’attività investigativa, si è potuto accertare che lo stato di detenzione degli affiliati e dei capi non ha costituito un valido deterrente, tanto che, proprio dal carcere, Vincenzo Aprea ha commissionato diversi omicidi: tra essi anche l’ordine di uccidere Francesco Celeste.

Ciò era possibile in quanto, durante i colloqui con i familiari e mediante l’utilizzazione di un linguaggio criptico, il capo del clan riusciva ad essere aggiornato circa l’andamento degli affari ed impartiva ordini per la risoluzione dei “problemi”. In un interrogatorio del giugno 2009, Giuseppe Manco rivela i segni convenzionali utilizzati durante i colloqui in carcere. Ad esempio, si legge, «con l’espressione “invito a nozze” si intende un killer». Ma il killer viene indicato anche con «il pollice verso», segno utilizzato pure «per dire che una persona è destinata ad essere ammazzata». Allo stesso modo, l’ordine di uccidere può essere impartito «indicando con un dito il pavimento». Proprio in conseguenza di tali indagini, ed al fine di arginare l’operatività di tale gruppo camorristico, in seguito al blitz che ha tradotto in carcere le donne del clan Aprea, al boss Vincenzo è stato applicato il regime del 41 bis.

Gestivano l’economia del clan, preparavano gli stipendi per gli affiliati, comandavano le piazze di spaccio e curavano le comunicazioni fra i boss detenuti e il resto della famiglia. In sostanza, le donne, nelle decisioni importanti avevano sempre l’ultima parola: anche uscendo dalla Questura, quel 20 ottobre 2010, hanno lanciato baci a familiari e conoscenti, ostentando la sicurezza e l’intransigenza confacente al codice d’onore che ispira le gesta dei più navigati interpreti della malavita.

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