Ex Capo DAP Ettore Ferrara non può più ricevere indennità da Capo della Polizia Penitenziaria, dovrà restituire 187mila euro
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SENTENZE TAR E CONSIGLIO DI STATO Ex Capo DAP Ettore Ferrara non può più ricevere indennità da Capo della Polizia Penitenziaria, dovrà restituire 187mila euro 28/04/2019 

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima) ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 3764 del 2017, proposto da
Ettore Ferrara, rappresentato e difeso dagli avvocati Francesco Cardarelli e Giovanni Zampetti, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Francesco Cardarelli in Roma, via G. P. Da Palestrina 47;
contro

Ministero della Giustizia, Ministero dell'Economia e delle Finanze, Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
Per:

- l’accertamento del diritto del dott. Ettore Ferrara a percepire il trattamento economico annuo nella sua interezza in base all'inquadramento nell'organico della Magistratura ordinaria e alle funzioni svolte senza le decurtazioni subìte e subende da parte dell'amministrazione in attuazione (i) dell'art. 1, commi 458 e 459, della legge n. 147 del 2013 e (ii) dell'art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011 convertito, con modificazioni, in legge n. 214 del 2011 e dell'art. 13, comma 1, del d.l. n. 66 del 2014 convertito, con modificazioni, in legge n. 89 del 2014, previa declaratoria di illegittimità delle decurtazioni medesime anche a seguito della rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 458 e 459, della legge n. 147 del 2013 in relazione agli artt. 3, 36, 38, 97 e 117, comma 1, della Costituzione, quest'ultimo anche in riferimento all'art. 6 della CEDU, e dell'art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011 convertito, con modificazioni, in legge n. 214 del 2011 e dell'art. 13, comma 1, del d.l. n. 66 del 2014 convertito, con modificazioni, in legge n. 89 del 2014 in relazione agli artt. 3, 36, 38, 53, 97 e 117, comma 1, della Costituzione, quest'ultimo anche in riferimento all'art. 6 della CEDU;

- per la conseguente condanna dell'amministrazione al versamento e alla restituzione delle somme nelle more indebitamente trattenute e/o recuperate in attuazione delle predette disposizioni, nonché al versamento dei relativi contributi previdenziali e degli accantonamenti per indennità di buonuscita oltre interessi e rivalutazione monetaria fino al soddisfo.


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero della Giustizia, del Ministero dell'Economia e delle Finanze e della Presidenza del Consiglio dei Ministri;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 13 febbraio 2019 la dott.ssa Roberta Ravasio e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1. Il ricorrente dott. Ettore Ferrara, magistrato ordinario, già dichiarato idoneo ad essere valutato ai fini della nomina alle funzioni direttive superiori (settima valutazione di professionalità) ed in servizio presso la Corte di Cassazione con funzioni di Consigliere, con DPR 24.11.2006 è stato nominato Capo dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) nell’ambito del Ministero della Giustizia, svolgendo le relative funzioni, diverse da quelle giudiziarie, sino all’agosto del 2008.

2. Nel corso dell’incarico il Ministero della Giustizia, Dipartimento dell’Organizzazione Giudiziaria, del Personale e dei Servizi – Direzione Generale dei Magistrati – Direzione Generale del Bilancio e della Contabilità, gli ha riconosciuto un assegno ad personam, “personale, pensionabile non riassorbibile”, ai sensi dell’art. 5, comma 3, della legge n. 121/1981 e ss.mm.ii., fissato con D.P.C.M. 17.2.2006 nella misura di € 19.606,00 mensili: si tratta di un’indennità inizialmente prevista per il Capo della polizia-direttore generale della Pubblica Sicurezza e successivamente estesa dall’art. 11-bis del d.l. n. 387/1987, convertito in legge n. 472/1987, anche al Comandante generale dell'Arma dei carabinieri, al Comandante generale della Guardia di finanza, al Direttore generale per gli istituti di prevenzione e di pena (ora capo del DAP) e al Direttore generale per l’economia montana e per le foreste.

3. Il ricorrente è stato richiamato in ruolo ed il 5 agosto 2008 ha cessato l’incarico presso il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.

4. Con Decreto del 7 novembre 2008 il Ministro della Giustizia, premettendo che all’atto del passaggio dal Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria alla Magistratura Ordinaria spettava al dott. Ferrara “un assegno personale, pensionabile non riassorbibile e non rivalutabile, pari alla differenza fra lo stipendio o retribuzione pensionabile in godimento all’atto del passaggio e quello spettante nella nuova posizione”, e ciò ai sensi dell’art. 3, comma 57, della L. n. 537/93, e rilevato altresì che tale differenza corrispondeva alla speciale indennità corrisposta al ricorrente ai sensi della dell’art. 5, comma 3, della legge n. 121/1981, tanto premesso ha deliberato di riconoscere al dott. Ferrara, a titolo di assegno ad personam ex art. 3, comma 57, della L. n. 537/93, un assegno personale, pensionabile non riassorbibile e non rivalutabile, dell’importo di € 235.272,00 lordi annui, a gravare sul bilancio del Ministero della Giustizia.

5. Il ricorrente ha continuato a percepire tale somma sino al momento in cui ha subito una prima decurtazione del trattamento economico, in ragione della entrata in vigore dell’art. 23 ter del D.L. n. 201 del 6.12.2011, convertito nella L. n. 214 del 22.12.2011, che ha introdotto un tetto massimo per i trattamenti economici annui onnicomprensivi percepiti da chiunque nell’ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni statali, parametrando tale tetto massimo allo stipendio annuo lordo del primo Presidente della Corte di Cassazione e disponendo che in caso di superamento di tale massimale il trattamento in godimento del dipendente pubblico dovesse essere immediatamente ridotto per la differenza.

5.1. E’ dunque accaduto che, dovendosi tenere conto, ai fini della applicazione del ricordato art. 23 ter, di tutte le somme percepite dal dipendente pubblico nel corso dell’anno solare, anche se rinvenienti da una pluralità di incarichi ed anche se erogati da diverse Amministrazioni pubbliche, il trattamento annuo lordo percepito dal dott. Ferrara è risultato, già nell’anno 2011, superiore a quello del primo Presidente della Corte di Cassazione, stipendio, quest’ultimo, determinato, per l’anno 2011, in € 293.658,95: pertanto con provvedimento del 10 dicembre 2012 l’Amministrazione ha disposto retroattivamente, e cioè a far tempo dal 7/04/2012, la riduzione del trattamento economico in godimento al dott. Ferrara, sino a concorrenza del predetto massimale, disponendo altresì che dal mese di marzo del 2013 fossero operate delle trattenute sul trattamento mensile in godimento al ricorrente, al fine di recuperare le somme da questi indebitamente percepite tra il 7 aprile ed il 31 dicembre 2012.

6. Con l’art. 13, comma 1, del d.l. n. 66 del 24.4.2014, convertito nella L. n. 89 del 23.6.2014, il legislatore ha ulteriormente ridotto il trattamento in godimento al primo Presidente della Corte di Cassazione, che ha rideterminato in € 240.000,00 euro lordi annui: in tal modo anche il massimale di cui all’art. 23 ter del D.L. n. 201/2011 è stato automaticamente rideterminato al ribasso, il che avrebbe determinato la necessità di procedere ad una corrispondente riduzione anche del trattamento annuo lordo in godimento al dott. Ferrara.

7. L’applicazione di tale nuovo massimale è stata tuttavia evitata in quanto il trattamento economico del ricorrente ha subito una autonoma ed ulteriore riduzione per effetto della entrata in vigore dell’art. 1, commi 458 e 459, della legge n. 147 del 27.12.2013. Il citato comma 458 ha, infatti, da una parte abrogato l'articolo 3, commi 57 e 58, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, e l’art. 202 del D.P.R. n. 3/57 da esso richiamato, d’altra parte ha stabilito che “ai pubblici dipendenti che abbiano ricoperto ruoli o incarichi, dopo che siano cessati dal ruolo o dall'incarico, è sempre corrisposto un trattamento pari a quello attribuito al collega di pari anzianità”; il comma 459, poi, ha stabilito “Le amministrazioni interessate adeguano i trattamenti giuridici ed economici, a partire dalla prima mensilità successiva alla data di entrata in vigore della presente legge, in attuazione di quanto disposto dal comma 458, secondo periodo, del presente articolo e dall'articolo 8, comma 5, della legge 19 ottobre 1999, n. 370, come modificato dall'articolo 5, comma 10-ter, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135”. Pertanto l’Amministrazione, con il provvedimento del 1.10.2014, ha rideterminato il trattamento spettante al dott. Ferrara in misura pari a quello riconosciuto al collega di pari anzianità, dal che è conseguita l’automatica interruzione, con decorrenza dal febbraio 2014, della corresponsione dell’assegno ad personam attribuito nel 2008; correlativamente a dicembre 2014 l’Amministrazione ha anche rideterminato il complessivo debito del ricorrente, per somme indebitamente percepite, nell’importo di € 187.493,20, da rimborsarsi in 63 rate mensili di € 2.982,15, con conseguente riduzione del reddito percepito a circa € 6.700,00 netti mensili .

8. Il ricorrente ha quindi proposto il ricorso di cui in epigrafe, formulando domanda di accertamento del suo diritto a continuare a percepire le somme decurtate con i provvedimenti del 10 dicembre 2012 e 1° ottobre 2014 e fondando la domanda sui seguenti motivi:

I) illegittima interruzione della corresponsione della speciale indennità pensionabile ex art. 3 della L. 121/1981, e violazione dell’art. 1, commi 458 e 459, della legge n. 147 del 2013.

Sotto un primo profilo il ricorrente sostiene che l’indennità che egli ha continuato a percepire dopo il rientro in ruolo nella magistratura, essendo “pensionabile”, collegata alle funzioni svolte ed essendo divenuta una componente fissa del trattamento economico: a) non poteva essere fatta oggetto di decurtazione ai sensi della prima parte del comma 458, che ha abrogato l’art. 3, comma 57, del D.P.R. 3/57, perché tale norma non ha carattere retroattivo e non può incidere sugli assegni ad personam già riconosciuti; b) neppure poteva essere decurtata ai sensi della seconda parte del comma 458, per la ragione che tale indennità, che mantiene la sua natura di indennità ex art. art. 3 della L. 121/1981, è speciale e non può essere abrogata da una norma generale.

Sotto altro profilo il ricorrente deduce, in subordine, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, commi 458 e 459, della L. n. 147/2013, per contrasto con gli artt.. 3, 36, 38, 97 e 117, comma 1, della Costituzione, violazione dell’art. 6 della CEDU: l’illegittimità costituzionale delle norme indicate è prospettata nella misura in cui esse incidono irragionevolmente su situazioni giuridiche consolidate e sui diritti quesiti in modo tale da ledere i principi del legittimo affidamento e della certezza del diritto in relazione al trattamento retributivo e pensionistico del dipendente pubblico.

II) Inapplicabilità dell’art. 23 ter del D.L. n. 201/2011, come modificato dall’art. 13, comma 1, del D.L. n. 66/2014, in virtù della possibile e doverosa interpretazione conforme di tali norme rispetto agli artt. 3, 53, 97, 36, 38 e 117, comma 1, della Costituzione: i parametri costituzionali richiamati impongono, infatti, di tutelare l’affidamento riposto nella certezza delle situazioni giuridiche, e quindi di non applicare il massimale retributivo contemplato dalla norma alle situazioni già consolidate; in subordine le norme indicate in rubrica incorrerebbero nella prospettata illegittimità costituzionale, andando esse ad incidere sull’affidamento riposto nella certezza di situazioni giuridiche nonché sulla adeguatezza della retribuzione: alcuni profili di illegittimità costituzionale sono già stati sottoposti alla Corte Costituzionale con ordinanza del Tar Lazio, sez. I, n. 8538 del 21.7.2016; resta da valutare la costituzionalità delle norme in rubrica sotto il profilo che esse attuerebbero dei prelievi forzosi di natura fiscale, che inevitabilmente incorrono, come tali, nella violazione dell’art. 3 e 52 della Carta costituzionale, stante che tali prelievi non sono imposti a tutti i cittadini e non seguirebbero criteri di progressività.

9. Le Amministrazioni in epigrafe si sono costituite in giudizio per resistere al ricorso.

10. Previo deposito di ulteriori memorie, il ricorso è stato chiamato alla pubblica udienza del 13 febbraio 2019, allorché è stato introitato in decisione.

DIRITTO

11. Prima di procedere con la disamina dei motivi di ricorso il Collegio ritiene opportuno attirare l’attenzione sulla circostanza che l’assegno riconosciuto al dott. Ferrara con Decreto del Ministero della Giustizia del 7 novembre 2008 non è fondato sull’art. 5, comma 3, della legge n. 121/1981: ancorché, infatti, l’importo del predetto assegno sia stato in concreto determinato con riferimento all’importo della speciale indennità pensionabile che al ricorrente era corrisposta in qualità di Capo della Polizia Penitenziaria, è inevitabile la constatazione che il Decreto del Ministro della Giustizia del 7 novembre 2008 ha mutato la causa della erogazione della somma in questione, riconoscendola ai sensi dell’art. 3, comma 57, della L. n. 537/93, sull’implicito presupposto che il dott. Ferrara, cessando dalle funzioni di Capo della Polizia Penitenziaria, non avrebbe altrimenti più potuto continuare a fruire dell’indennità ex art. 5, comma 3, della legge n. 121/1981.

11.1. La legittimità del citato D.M. del 7 novembre 2008 non risulta essere mai stata contestata dal ricorrente, sotto il profilo della individuazione della causa del riconoscimento della indennità in parola: si può dunque affermare che il ricorrente ha prestato acquiescenza al Decreto del Ministro della Giustizia del 7 novembre 2008, nella misura in cui quest’ultimo ha implicitamente stabilito che, cessando dall’incarico di Capo della Polizia Penitenziaria, il dott. Ferrara non aveva più diritto di fruire della indennità di cui all’art. 5, comma 3, della legge n. 121/1981.

11.2. Pertanto, contrariamente a quanto rilevato dal ricorrente nelle proprie difese, il presente giudizio non ha ad oggetto una indennità il cui carattere di specialità possa, in tesi, ritenersi preclusivo alla applicazione dell’art. 1, comma 458 e 459, della L. n. 147/2013. D’altro canto nel presente giudizio, e proprio in ragione dell’acquiescenza prestata dal ricorrente, non può essere messo in discussione il principio secondo cui l’indennità speciale ex art. 5, comma 3, della legge n. 121/1981 può essere erogata, e fruita dall’interessato, solo nel corso dello svolgimento dell’incarico, principio a chiare lettere enunciato nella sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, n. 5151 del 14 giugno 2018, laddove si afferma che “L’indennità di cui qui si verte è configurata dalla legge come un trattamento economico speciale, privo del carattere di generalità ed omogeneità, e invece strettamente specifico, correlato allo svolgimento di determinate funzioni ed ai rischi particolari che vi ineriscono, concernenti in quel quadro i componenti effettivi del Comitato nazionale dell'ordine e della sicurezza pubblica……..Su tali premesse, appare chiaro che – una volta cessato dalle speciali funzioni cui è connessa l’erogazione dell’indennità – il beneficiario (ove non collocato nel frattempo in quiescenza) non può più continuare a beneficiarne in base alla norma a suo tempo attributiva della medesima: cessando il titolo di corresponsione, ne cessa anche la ragione, non essendo - nell’ordinamento generale e in quelli di settore - rinvenibile una disposizione di legge che preveda una progressione economica ad personam come elemento intrinseco della retribuzione per quanti ne hanno, pur certo a giusto titolo, beneficiato.”

12. Ciò chiarito, prima di procedere con la disamina dei motivi di ricorso è opportuno esaminare la normativa di riferimento.

12.1. L’art. 202 del D.P.R. n. 3/57, stabiliva che “Nel caso di passaggio di carriera presso la stessa o diversa amministrazione agli impiegati con stipendio superiore a quello spettante nella nuova qualifica è attribuito un assegno personale, utile a pensione, pari alla differenza fra lo stipendio già goduto ed il nuovo, salvo riassorbimento nei successivi aumenti di stipendio per la progressione di carriera anche se semplicemente economica”. Tale disposizione è stata successivamente richiamata dall’art. 3, comma 57 e 58, della L. n. 537/93, laddove si leggeva che “Nei casi di passaggio di carriera di cui all'art. 202 del citato testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, ed alle altre analoghe disposizioni, al personale con stipendio o retribuzione pensionabile superiore a quello spettante nella nuova posizione è attribuito un assegno personale pensionabile, non riassorbibile e non rivalutabile, pari alla differenza fra lo stipendio o retribuzione pensionabile in godimento all'atto del passaggio e quello spettante nella nuova posizione.”.

12.2. Tali previsioni, che come si è visto sono state abrogate dall’art. 1, comma 458, della L. n. 147/2013, consentivano al dipendente pubblico che avesse deciso di prestare stabilmente servizio presso una diversa amministrazione, di continuare a fruire del più elevato trattamento economico in godimento prima del passaggio di carriera: tale risultato veniva garantito mediante l’integrazione del trattamento economico, riconosciuto dalla nuova amministrazione, con un assegno c.d. “ad personam”, di importo corrispondente alla differenza tra i due trattamenti economici. Il predetto assegno personale veniva dunque riconosciuto al dipendente in via tendenzialmente permanente, ovvero sino al raggiungimento dei limiti di età, fatta salva l’interruzione del rapporto di pubblico impiego: ai fini di quanto infra si farà rilevare, tuttavia, va sottolineato che l’assegno ad personam riconoscibile ai sensi degli artt. 202 del D.P.R. n. 3/57 e 3, comma 57, della L. n. 537/93 trovava fondamento nel c.d. “passaggio di carriera”, cioé nel definitivo abbandono del rapporto di servizio in essere con una amministrazione e nella concomitante definitiva attivazione di un altro e diverso rapporto di servizio con diversa amministrazione; “passaggio di carriera” che il legislatore a suo tempo, mediante le ricordate norme ormai abrogate, aveva inteso incoraggiare eliminando il deterrente, costituito dall’eventuale deteriore trattamento economico che il dipendente pubblico avrebbe altrimenti percepito passando al servizio di altra amministrazione.

12.3. L’art. 1, comma 458 e 459, della L. 147/2013 sono intervenuti sul regime sopra descritto statuendo quanto segue:

“458. L'articolo 202 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, e l'articolo 3, commi 57 e 58, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, sono abrogati. Ai pubblici dipendenti che abbiano ricoperto ruoli o incarichi, dopo che siano cessati dal ruolo o dall'incarico, è sempre corrisposto un trattamento pari a quello attribuito al collega di pari anzianità.

459. “Le amministrazioni interessate adeguano i trattamenti giuridici ed economici, a partire dalla prima mensilita' successiva alla data di entrata in vigore della presente legge, in attuazione di quanto disposto dal comma 458, secondo periodo, del presente articolo e dall'articolo 8, comma 5, della legge 19 ottobre 1999, n. 370, come modificato dall'articolo 5, comma 10-ter, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135.”

12.4. Data la chiarezza della previsione di cui al comma 459, il Collegio non vede ragione per discostarsi da quanto già statuito dal Consiglio di Stato, in particolare nella sentenza della Sez. V, n. 4224 del 1° ottobre 2016, che ha messo in evidenza la differenza sussistente tra le situazioni contemplate al comma 458 prima parte e seconda parte, giungendo ad affermare che l’adeguamento stipendiale imposto dal comma 459, con la correlativa riduzione del trattamento economico, si applica solo alle fattispecie di cui al comma 458, seconda parte.

12.4.1. Nella ricordata pronuncia, infatti, il Consiglio di Stato, ha affermato che “per la fattispecie del passaggio di ruolo tra diverse amministrazioni rileva unicamente il primo periodo del comma 458 in esame, comportante appunto l’abrogazione dell’istituto del trascinamento previsto dalla più volte citata disposizione del testo unico n. 3 del 1957, con effetto a partire dall’anno finanziario 2014l, oggetto della legge n. 147 del 2013, senza alcuna previsione di retroattività a situazioni precedentemente costituitesi”: imponendo il comma 459 l’adeguamento stipendiale solo con riferimento alle fattispecie di cui alla seconda parte del comma 458, il Consiglio di Stato ha dunque tratto la coerente conclusione che le provvidenze contemplate dalla parte prima del citato comma 458, se riconosciute in data anteriore alla data di entrata in vigore della L. n. 147/2013, non possono essere fatte oggetto di decurtazione in applicazione del successivo comma 459, neppure con riferimento ai ratei stipendiali successivi al 1° gennaio 2014, costituendo esse, in sostanza, un diritto ormai consolidato.

12.4. Il comma 458, parte seconda, contempla invece provvidenze di natura differente, strettamente legate a funzioni svolte per un periodo transitorio e limitato, comunque non comprese in quelle ordinariamente demandate al dipendente pubblico: rileva il Collegio, in particolare, che tale previsione non si riferisce solo a “ruoli ed incarichi” ricoperti presso amministrazioni diverse da quella di appartenenza, potendo la norma trovare applicazione anche al dipendente che abbia ricoperto presso la amministrazione medesima “ruoli ed incarichi” non compresi nelle ordinarie funzioni.

12.4.1. Dunque, con riferimento ai dipendenti pubblici che per un limitato periodo di tempo abbiano rivestito “ruoli ed incarichi” esulanti le ordinarie funzioni, il comma 458 prevede, alla cessazione di essi, non già la decurtazione degli eventuali emolumenti aggiuntivi corrisposti in dipendenza dello svolgimento di tali funzioni aggiuntive o straordinarie, quanto, semplicemente, l’equiparazione del trattamento economico globale a quello del collega di pari anzianità: a riguardo il Consiglio di Stato, Sez. V, nella sentenza n. 5151 del 14 giugno 2018, ha affermato che la previsione in esame “concerne, per espressa volontà di quel legislatore, ogni precedente trattamento retributivo (e sempre che di trattamento retributivo si possa parlare……”, ed inoltre che “….rispetto a tale previsione, non assumerebbe rilievo effettivo la natura del compenso aggiuntivo derivante da un precedente incarico, in quanto, quale che questa sia, dal 1° gennaio 2014 il compenso comunque più non spetta, in quanto al dipendente va sempre e comunque corrisposto un trattamento «pari a quello attribuito al collega di pari anzianità». Inoltre, è da rilevare che in ragione del suo carattere generale ed onnicomprensivo, la fattispecie del comma 458, secondo periodo, ha portata più ampia di quella cui si riferisce la prima parte della disposizione, limitata alle ipotesi in precedenza regolate dagli artt. 202 d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, e 3, commi 57 e 58, l. 24 dicembre 1993, n. 537.”.

12.4.2. La norma in esame, dunque, “si riferisce patentemente a obiettivi di contenimento della spesa pubblica (per quanto relativamente poche possano essere le posizioni realmente interessate); è frutto di una scelta politico-legislativa che rimuove nei fondamenti di legge un principio di conservazione e non retrocessione delle posizioni economiche raggiunte, prima dato per generalmente acquisito nel pubblico impiego.” (C.d.S., Sez. V, n. 5151/2018), e “introduce quindi un divieto di reformatio in melius per la mera titolarità di un incarico avente un regime economico più favorevole rispetto alla posizione di ruolo rivestita. Rispetto a questo divieto è poi strumentale, per le situazioni pregresse, l’obbligo di adeguamento previsto dal successivo comma 459.” (C.d.S., Sez. V, n. 4224/2016).

12.5. L’adeguamento stipendiale imposto dal comma 459, andando astrattamente ad incidere su situazioni ancora in essere, e determinando una diminuzione del trattamento economico, ha efficacia retroattiva, ma si tratterebbe “non di un'ipotesi di retroattività c.d. "propria" – la quale ricorre quando un nuovo intervento normativo regola diversamente fattispecie costituitesi ed effetti integralmente compiutisi sotto la normativa pregressa – bensì di un caso di retroattività c.d. "impropria", che si realizza quando le norme sopravvenute regolano diversamente i tratti non esauriti dei rapporti di durata. L'immediata vigenza della misura di revisione del trattamento stipendiale è, del resto, coerente con l'obiettivo di contenimento finanziario reso manifesto dalla sua inserzione nel contesto della manovra di riequilibrio del bilancio pubblico (legge di stabilità per l'anno 2014). È opportuno precisare che il disposto normativo in esame – il quale, come si è detto, dispone per il passato nel limitato senso di produrre effetti ex nunc ma con riferimento a fatti compiuti nel passato – non contrasta con il percorso della giurisprudenza costituzionale che ha condotto alla progressiva valorizzazione del legittimo affidamento, quale principio posto a tutela delle situazioni soggettive consolidatesi per effetto di atti dei pubblici poteri idonei a generare un'aspettativa nel loro destinatario”. (C.d.S., Sez. V, n. 1384/2018).

12.5.1. Si deve peraltro precisare che l’adeguamento stipendiale in parola, imposto dal comma 459, pur potendo di fatto determinare la decurtazione di provvidenze precedentemente riconosciute al dipendente pubblico, indipendentemente dalla relativa natura e causale, non può però colpire gli assegni ad personam riconosciuti prima della entrata in vigore della L. n. 143/2013, in presenza di un effettivo “passaggio di carriera” ed in applicazione dell’art. 202 D.p.R. n. 3/57 e dell’art. 3, comma 57, della L. n. 537/93: ciò per la ragione che tali assegni sono compresi nella previsione del comma 458, parte prima, per l’attuazione della quale il comma 459 non prevede l’adeguamento del trattamento economico; gli assegni ad personam riconosciuti in costanza del previgente regime normativo potranno, semmai, essere decurtati in presenza di “sforamento” del massimale retributivo introdotto dall’art. 23 ter del D.L. n. 201 del 2011 convertito, con modificazioni, in legge n. 214 del 2011 e dell'art. 13, comma 1, del D.L. n. 66 del 2014 convertito, con modificazioni, in legge n. 89 del 2014.

12.5.2. Per il principio di non contraddizione, il combinato disposto delle due previsioni deve pertanto essere interpretato nel senso che: a) gli assegni ad personam ex art. 202 D.p.R. n. 3/57 e art. 3, comma 57, della L. n. 537/93, legittimamente riconosciuti prima della entrata in vigore della L. n. 147/2013, rimangono fermi; b) con l’entrata in vigore della L. n. 147/2013 l’istituto del “trascinamento”, ovvero gli assegni ad personam dianzi menzionati, non esistono più e non possono essere legittimamente attribuiti al dipendente pubblico, pur in presenza di un “passaggio di carriera”; c) con decorrenza dal 1° febbraio 2014 tutte le provvidenze di natura diversa, dipendenti dallo svolgimento transitorio di “ruoli ed incarichi” che comportino l’esercizio di funzioni diverse da quelle ordinarie, a far tempo dalla cessazione di tali “ruoli ed incarichi”, possono essere soppresse o decurtate, nella misura in ciò sia necessario per allineare lo stipendio del dipendente pubblico interessato a quello del collega di pari anzianità.

13. Tutto quanto sopra premesso e precisato, il Collegio può ora precedere con la disamina dei motivi di ricorso, rilevando quanto segue.

14. Avendo già precisato che il Decreto Ministeriale del 7 novembre 2008 ha riconosciuto al ricorrente una indennità ai sensi degli artt. 202 D.P.R. n. 3/57 e 3, comma 57, della L. n. 537/93, si dovrebbe concludere, in applicazione dei su esposti principi, che la decurtazione operata a carico del ricorrente ai sensi dell’art. 1, comma 458 e 459 della L. n. 147/2013 sia illegittima.

14.1. Il Collegio ritiene, tuttavia, di poter e dover rilevare che la cospicua indennità riconosciuta al dott. Ferrara, con il Decreto Ministeriale del 7 novembre 2008, in realtà non può essere ascritta tra quelle di cui agli artt. 202 D.p.R. n. 3/57 e 3, comma 57, della L. n. 537/93, e ciò per la semplice ragione che in realtà il ricorrente non ha mai effettuato un “passaggio di carriera”: egli è sempre rimasto dipendente del Ministero della Giustizia in qualità di magistrato ordinario, appartenente all’Ordinamento Giudiziario, ha prestato servizio per il Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria a titolo transitorio, e, cessando dall’incarico di Capo del D.A.P. e di Capo della Polizia Penitenziaria il dott. Ferrara è tornato nei ruoli della magistratura. L’indennità da questi percepita a far tempo dal 7 novembre 2008 non può, allora, essere ascritta tra quelle di cui al comma 458, parte prima, uniche a rimanere intangibili, ove riconosciute in data anteriore alla entrata in vigore della L. n. 147/2013, venendo inevitabilmente a cadere nell’ambito del comma 458, parte seconda: legittimamente, pertanto, l’Amministrazione ha provveduto, con decorrenza dal 1° febbraio 2014, a rideterminare il trattamento economico del ricorrente allineandolo a quello del collega di pari anzianità, a tal fine revocando, implicitamente, il beneficio in parola.

14.2. Né si può obiettare che il Collegio, ragionando come sopra, proceda ad una non consentita disapplicazione del Decreto Ministeriale del 7 novembre 2008 e/o incorra in violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato.

14.2.1. Va al proposito sottolineato che le domande formulate nel presente giudizio hanno ad oggetto diritti soggettivi nascenti da un rapporto sul quale il giudice amministrativo esercita giurisdizione esclusiva; va inoltre rammentato che la disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo è consentita dalla giurisprudenza “nelle sole ipotesi di giurisdizione esclusiva, relativamente alle controversie relative a diritti soggettivi (sulla base di un’interpretazione estensiva dell’art. 5 L. n. 2245/1865 all.E)” (CdS, Sez V, 15 ottobre 2009 n. 6341; C.d.S. Sez. V, 10 gennaio 2003, n. 35).

14.2.2. Oltre a ciò v’è da dire che il ricorrente, formulando domanda di accertamento del diritto a continuare a percepire l’indennità in parola, ha implicitamente investito il Collegio del potere di verificare la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi di tale diritto e, proprio per tale ragione, deve ritenersi consentito al Collegio di rilevare d’ufficio il difetto di uno di tali elementi costitutivi, costituito appunto dal c.d. “passaggio di carriera”.

14.3. Per concludere la disamina del primo ordine di argomenti si deve dire che:

- la non spettanza al ricorrente della indennità oggetto di causa ai sensi dell’art. 5, comma 3, della L. 121/81 è già stata implicitamente accertata con Decreto Ministeriale del 7 novembre 2008, al quale il dott. Ferrara ha prestato acquiescenza; risulta pertanto irrilevante qualsiasi considerazione sulla natura – speciale o meno – di tale indennità e sulla sua asserita funzione indennitaria e/o risarcitoria di rischi cui il ricorrente sarebbe stato esposto in passato, in qualità di Capo della Polizia Penitenziaria (come sostenuto nell’ultima memoria depositata in causa dal ricorrente); peraltro il Collegio non vede ragione per discostarsi da quanto affermato dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 5151/2018, già esaminata, in ordine alla spettanza di tale indennità solo durante il periodo in cui l’interessato ricopre l’incarico;

- la non spettanza del ricorrente della indennità in argomento, oggetto della domanda di accertamento formulata dal dott. Ferrara, ai sensi del combinato disposto degli artt. 202 del D.P.R. n. 3/57 e 3, comma 57 e 58, della L. n. 537/93, deve ugualmente essere affermata, a ciò ostando il fatto che egli non ha mai effettuato un “passaggio di carriera”, prestando servizio al D.A.P. solo in via transitoria, ragione per cui tale indennità rientra, automaticamente, tra quelle che possono all’occorrenza essere soppresse o decurtate per il combinato disposto dell’art. 1, comma 458, parte seconda e comma 459, della L. n. 147/2013, ove ciò sia necessario per riallineare lo stipendio del dipendente interessato con quello del collega più anziano.

15. Con un secondo ordine di argomenti il ricorrente deduce l’incostituzionalità sia dell’art. 23 ter della L. del d.l. n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, in legge n. 214 del 2011, e dell'art. 13, comma 1, del d.l. n. 66 del 2014, convertito, con modificazioni, in legge n. 89 del 2014, sia del combinato disposto dell’art. 1, comma 458 e 459, della L. n. 147/2013.

15.1. Con riferimento alla dedotta incostituzionalità del “massimale retributivo”, introdotto dalle norme dianzi menzionate, è sufficiente richiamare la sentenza della Corte Costituzionale n. 124/2017, che ha dichiarato infondate le numerose questioni di legittimità costituzionale sollevate relativamente all’art. 23 ter citato: si rinvia pertanto alle ampie argomentazioni che hanno motivato la decisione della Consulta. La decurtazione operata a carico del ricorrente con il provvedimento del 10 dicembre 2012 risulta pertanto legittima.

15.2. Con riferimento alla dedotta incostituzionalità del combinato disposto dell’art. 1, comma 458 e 459, della L. n. 147/2013, il Collegio ne afferma la manifesta infondatezza sulle seguenti considerazioni.

15.2.1. Gli assegni ad personam già riconosciuti alla data di entrata in vigore della L. 147/2013, contemplati nel comma 458, parte prima, non vengono fatti oggetto di alcuna decurtazione o revoca, neppure ex nunc: non v’è dunque alcuna lesione dell’affidamento in essi riposta, e peraltro la questione si palesa non dirimente per il presente giudizio, posto che – come sopra precisato – il ricorrente non possedeva e non possiede i requisiti per il riconoscimento del diritto a percepire una simile indennità.

15.2.2. Il riallineamento ex nunc del trattamento economico, disposto alla cessazione di un ruolo o incarico provvisorio in attuazione del comma 458, parte seconda, è funzionale sia al contenimento della spesa pubblica, sia al rispetto degli artt. 3 e 36 della Costituzione, in ossequio ai quali situazioni identiche debbono essere trattate in modo identico, e la retribuzione deve essere proporzionale alla quantità e qualità del lavoro svolto: è evidente, in particolare, che nella misura in cui la retribuzione di un dipendente pubblico possa considerarsi giusta ed equa, in quanto corrispondente alle previsioni di legge o alla contrattazione collettiva, l’eventuale corresponsione di un trattamento economico superiore ad altro dipendente che svolga le medesime funzioni con identica anzianità non può che risultare sproporzionata, oltre che lesiva del principio di uguaglianza.

15.2.3. D’altro canto il riallineamento del trattamento economico previsto al comma 458, parte seconda, risulta anche a tutela dello stesso dipendente che in via provvisoria vada a rivestire un ruolo o incarico provvisorio, percependo per esso una speciale provvidenza: siffatto dipendente, oltre che essere privato della provvidenza accessoria, alla cessazione dell’incarico o ruolo provvisorio, potrebbe anche rischiare, ove non diversamente previsto da norme specifiche, di percepire il trattamento economico in godimento prima dell’incarico: l’istituto in parola, dunque, vale anche quale riconoscimento, al dipendente che accetti transitoriamente di svolgere incarichi o ruoli straordinari, di vedersi riconoscere sempre, al rientro nelle funzioni ordinarie, gli avanzamenti di carriera che non dipendano dallo svolgimento effettivo della attività lavorativa;

15.3. Conclusivamente, considerate le molteplici funzioni del riallineamento stipendiale contemplato dal comma 458, parte seconda, valutato che esso può eventualmente incidere su provvidenze legate, per definizione, ad incarichi già terminati, risultando come tali prive di una giusta causa di attribuzione, e considerate le imperiose esigenze di contenimento della spesa pubblica, che a loro volta rispondono all’esigenza di garantire, in prospettiva, altri interessi generali di rilevanza costituzionale, il Collegio ritiene manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale prospettata dal ricorrente con riferimento all’art. 1, comma 458, parte seconda, e 459, della L. 147/2013, giustificandosi la lesione dell’affidamento, riposto nella percezione delle provvidenze incise da tali previsioni, con l’esigenza di assicurare molteplici interessi pubblici di più ampio respiro, e risultando peraltro confermato, nei confronti del dipendente attinto da tale “riallineamento stipendiale”, il diritto a percepire la retribuzione che la normativa di riferimento prevede per lo svolgimento di funzioni analoghe, con identica anzianità di servizio.

16. Alla luce delle dianzi esposte considerazioni va respinta sia la domanda di accertamento formulata dal ricorrente, sia la richiesta di condanna del Ministero della Giustizia alla restituzione, al dott. Ferrara, delle somme detratte dal di lui trattamento economico, in forza dei provvedimenti sopra ricordati.

17. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del resistente Ministero della giustizia, delle spese processuali, che si liquidano in E. 2.000,00 (euro duemila), oltre accessori di legge, se dovuti, compensandosi con le altre Amministrazioni costituite.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 13 febbraio 2019 con l'intervento dei magistrati:

Ivo Correale, Presidente FF

Laura Marzano, Consigliere

Roberta Ravasio, Consigliere, Estensore


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