Generale degli Agenti di Custodia demansionato: ottiene 100mila euro di risarcimento dal DAP
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SENTENZE TAR E CONSIGLIO DI STATO Generale degli Agenti di Custodia demansionato: ottiene 100mila euro di risarcimento dal DAP 28/10/2019 

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Quater)

ha pronunciato la presente

SENTENZA NON DEFINITIVA

sul ricorso numero di registro generale 9768 del 2014, proposto da
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Marco Orlando, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Sistina, 48;
contro

Ministero della Giustizia - (D.A.P.), in persona del ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
per l'accertamento

della condotta illecita inerente il demansionamento e la dequalificazione del ricorrente in violazione delle norme previste in materia di pubblico impiego contrattualizzato e di quelle espressamente previste per la carriera dirigenziale penitenziaria e per la condanna al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali;


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero della Giustizia - (D.A.P.);

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 luglio 2019 il dott. Antonio Andolfi e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Visto l'art. 36, co. 2, cod. proc. amm.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con ricorso notificato l’11 luglio 2014 al Ministero della giustizia, il generale di brigata -OMISSIS-, in servizio presso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria con il grado di colonnello dal 22 gennaio 2002 e, successivamente, dal 22 gennaio 2005, con il grado di generale di brigata, chiede la condanna dell’Amministrazione penitenziaria, previo accertamento della condotta illecita, al risarcimento dei danni derivanti dal demansionamento e dalla dequalificazione professionale sofferta, in violazione delle norme in materia di pubblico impiego e di quelle espressamente previste per la carriera dirigenziale penitenziaria.

Il ricorrente è un ufficiale generale del Corpo degli agenti di custodia, ruolo ad esaurimento, di cui all’articolo 25, comma 6, della legge numero 395 del 1990.

Di fatto, non gli sarebbe mai stato conferito un incarico dirigenziale, fin dalla nomina al grado di colonnello, corrispondendo tale grado alla qualifica di primo dirigente e il grado di generale di brigata alla qualifica di dirigente superiore.

Il danno patrimoniale da risarcire sarebbe quello derivante dalla dequalificazione e dalla perdita di chance.

Il danno non patrimoniale sarebbe da valutare come danno biologico.

Richiama, come normativa di riferimento, l’articolo 25 comma 6 della legge numero 395 del 1990 e l’articolo 90 del d.p.r. numero 82 del 1999.

Il Ministero della giustizia eccepisce la legittimità della condotta amministrativa, richiamando il decreto legislativo numero 63 del 2006 e soprattutto l’articolo 27 del decreto legislativo numero 146 del 2000 che avrebbe modificato l’articolo 25 della legge numero 395 del 1990.

La difesa statale eccepisce, inoltre, che il ricorrente non avrebbe chiesto altri incarichi oltre quello negato di direttore dell’ufficio 2º della Direzione generale risorse materiali, beni e servizi, attuale Ufficio automobilistico, casermaggio, armamento, vestiario, navale e telecomunicazioni.

All’udienza pubblica del 9 luglio 2019 il ricorso è trattato e trattenuto per la decisione.

DIRITTO

Dall’esposizione dei fatti allegati dalla difesa del ricorrente, si desume che, a decorrere dal 22 gennaio 2002, l’interessato ha iniziato a ricoprire il ruolo di colonnello, corrispondente alla qualifica di primo dirigente delle Forze di Polizia e poi, a decorrere dal 22 gennaio 2005, quello di generale di brigata, equiparabile alla qualifica di dirigente superiore dell’Amministrazione Penitenziaria.

Rappresenta il ricorrente di aver richiesto, sin dalla nomina al grado di colonnello, il conferimento di un incarico dirigenziale, a tal fine reiterando l’istanza per il conferimento dell’incarico di direttore dell’Ufficio II della DGRMBS, dapprima in data 2 gennaio 2003, poi in data 18 novembre 2004, richieste tuttavia rimaste inevase.

A seguito dell’assegnazione alla Direzione del predetto Ufficio al dirigente -OMISSIS-, il ricorrente chiedeva la revoca di ogni suo incarico presso l’Ufficio II e l’affidamento di mansioni di collaborazione diretta con il Direttore generale, in attesa del conferimento di un incarico adeguato alla propria qualifica ed al grado.

In data 29 luglio 2005, con decreto emesso in attesa di acquisire il parere del gruppo di lavoro in ordine ai criteri ed alle modalità di conferimento degli incarichi agli ufficiali di ruolo ad esaurimento del disciolto Corpo degli agenti di custodia, venivano assegnate al ricorrete le mansioni di coadiutore del Direttore Generale nella trattazione delle pratiche afferenti le materie tecnico-logistiche, individuate di volta in volta dal Direttore Generale secondo il proprio prudente apprezzamento.

Asserisce inoltre il ricorrente che il suddetto parere non sarebbe mai stato prestato dal gruppo di lavoro, che, peraltro, non si sarebbe mai espresso nemmeno con riferimento all’affidamento di incarichi ad altri Ufficiali dell’ex Corpo degli agenti di custodia.

Il ricorrente reiterava la richiesta di incarico effettivo quale direttore dell’Ufficio II della DGRMBS, stante il collocamento in quiescenza del titolare del predetto Ufficio, ma la funzione veniva ancora una volta affidata ad altro personale dell’Amministrazione.

Nel febbraio 2012, il nuovo Direttore Generale proponeva all’odierno ricorrente l’incarico di coordinatore di alcune sezioni dell’Ufficio III, incarico declinato dall’interessato in quanto non dirigenziale.

A fronte della necessità di collocare ulteriore personale nelle funzioni dirigenziali della predetta Amministrazione, in data 28 febbraio 2012, con provvedimento del Capo del Dipartimento, veniva assegnato alla DGRMBS il -OMISSIS-, proveniente da un’altra articolazione dell’Amministrazione Penitenziaria e quest’ultimo veniva delegato alla reggenza dell’Ufficio III della DGRMBS, stante l’assenza di personale con qualifica dirigenziale già in servizio presso la DGRMBS, con ordine di servizio n. 5 del 2 marzo 2012, incarico poi divenuto definitivo con decreto del Direttore Generale del Personale e della Formazione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del 7 marzo 2012.

Con nota n. 6900 del 20 settembre del 2012, il Direttore Generale proponeva anche la soppressione della Commissione di studio presieduta dall’odierno ricorrente, poi disposta con decreto del Capo del Dipartimento pro tempore del 10 ottobre 2012, al fine asserito di razionalizzare le risorse umane disponibili, applicando una politica di contenimento della spesa pubblica, sebbene i membri della Commissione, stando a quanto affermato da parte ricorrente, non avrebbero percepito alcun compenso aggiuntivo per l’espletamento dell’incarico.

Successivamente veniva intimata al -OMISSIS-la restituzione del telefono di servizio, nonché con nota del 4 giugno 2012 n. 4368, il trasferimento ad altra stanza rispetto a quella occupata, per esigenze dell’Ufficio armamento, intimazione poi reiterata con successivi provvedimenti ed attuata coattivamente.

A fronte di tale situazione di fatto il -OMISSIS-, in data 22 luglio 2014, depositava ricorso notificato in data 15 luglio 2014 contro il Ministero della Giustizia al fine di ottenere da questo Tar l’accertamento e la declaratoria della condotta illecita posta in essere dall’Amministrazione inerente il demansionamento e la dequalificazione.

Il ricorso è affidato a tre motivi di diritto.

Con il primo motivo, il ricorrente censura la violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 4 e 35 Cost., art. 2103 cod. civ., art. 52 del d. lgs. n. 165 del 2001, della l. n. 395 del 1990, del d. P.R. n. 82 del 1999 e del d. lgs. n. 63 del 2003, eccesso di potere e difetto di motivazione, atteso che l’Amministrazione avrebbe violato l’obbligo positivizzato nell’art. 2013 cod. civ. e nell’art. 52 del d. lgs. n. 165 del 2001 di adibire il dipendente ad una mansione confacente alla sua qualifica, dando luogo ad una condotta pervicacemente persecutoria.

Con il secondo motivo, censura la violazione degli artt. 2103 e 2087 cod. civ. nonché la violazione dell’art. 52 del d. lgs. n. 165/2001 e l’eccesso di potere, atteso che l’Amministrazione avrebbe adottato una condotta contrastante con gli obblighi di tutela dell’integrità fisica e morale del lavoratore e di assegnazione del medesimo a mansioni coerenti con la propria qualifica professionale, da identificarsi nella fattispecie di elaborazione giurisprudenziale del mobbing.

Il ricorrente formula, da ultimo, domanda di risarcimento dei danni patiti, con particolare riguardo al danno patrimoniale per dequalificazione e perdita di chance correlate alle occasioni di carriera perse, da liquidare in via equitativa, nonché al danno non patrimoniale, valutato quale danno biologico, morale ed esistenziale subito, stante l’asserita inattività cui il ricorrente è stato nel tempo costretto dal Ministero.

Con successiva memoria la difesa del ricorrente rappresenta che, a seguito dell’accertamento della ASL RM/D della patologia di -OMISSIS-, con Decreto della Direzione Generale del Personale e delle Risorse del 15 novembre 2016, il -OMISSIS-è stato dispensato dal servizio per infermità. Nella medesima memoria si allegano ulteriori episodi probanti l’illiceità della condotta dell’Amministrazione, deducendone il nesso causale con il danno patito a fronte della patologia accertata, tra cui il procedimento disciplinare avviato in data 20 agosto 2014 per assenza ingiustificata dal servizio, poi concluso con decisione di non procedere in data 9 maggio 2015.

Al fine della risoluzione del caso di specie occorre, preliminarmente, individuare quali obblighi incombano sul datore di lavoro a fronte del rapporto sinallagmatico posto in essere con il lavoratore.

Tali obblighi costituiscono espressione del dettato costituzionale e segnatamente della disposizione di cui all’art. 4 a mente della quale “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.”.

La disposizione testé richiamata permea le ulteriori disposizioni di grado inferiore che fanno gravare sul datore di lavoro specifici obblighi di tutela del lavoratore. L’art. 2087 cod. civ. sancisce infatti il principio per cui il datore di lavoro deve adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica del lavoratore, nonché la sua personalità morale; il successivo articolo 2103 cod. civ. obbliga il datore di lavoro ad adibire il lavoratore alle mansioni per cui è assunto od alle qualifiche superiori che abbia nel frattempo acquisito, costituendo così il dato positivo che dovrebbe scongiurare il pericolo di demansionamento e dequalificazione.

Le norme civilistiche, pur non direttamente applicabili ai rapporti di lavoro non contrattualizzati, costituiscono espressione dei principi costituzionali richiamati e, pertanto, devono trovare applicazione, mediatamente, anche ai dipendenti pubblici in regime pubblicistico, tra i quali è da ricomprendere il ricorrente, appartenente al ruolo ad esaurimento degli ufficiali del Corpo degli Agenti di custodia.

Ne deriva che, in caso di inosservanza di tali obblighi, il datore di lavoro pubblico pone in essere una condotta illecita, da ricondurre all’alveo della responsabilità contrattuale, non limitata ai rapporti strettamente dipendenti da un negozio giuridico, ma rinvenibile ogni qual volta tra due soggetti si instauri un rapporto giuridico connotato da diritti e obblighi reciproci.

Nello specifico, il ricorrente lamenta una atteggiamento persecutorio riconducibile alla figura giuridica del “mobbing”, di elaborazione giurisprudenziale.

In mancanza di una definizione positiva, la giurisprudenza ha ritenuto sussistente la responsabilità del datore di lavoro per i danni cagionati al lavoratore al ricorrere dei seguenti elementi: a) molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; b) evento lesivo della salute psicofisica del dipendente; c) nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell'integrità psicofisica del lavoratore; d) prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio unificante i singoli fatti lesivi, che rappresenta elemento costitutivo della fattispecie (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 27/10/2016, n.4509; T.A.R. Catania, sez. III, 03/04/2018, n. 687; Corte d’Appello Milano, sez. lav. 10/06/2019, n.770).

Nel caso di specie, da quanto versato in atti, emerge che effettivamente l’Amministrazione resistente abbia reiterato un comportamento al limite della legittimità, ignorando le numerose richieste avanzate dalla parte ricorrente volte ad ottenere il conferimento di un incarico dirigenziale, senza che tali determinazioni fossero mai suffragate da una puntuale motivazione in ordine al pubblico interesse tale da legittimarle.

Si deve richiamare, al riguardo, l’art. 25 della legge 15/12/1990, n. 395, Ordinamento del Corpo di Polizia Penitenziaria, che, al comma 6, dispone che gli ufficiali del ruolo ad esaurimento assumono le funzioni e gli obblighi dei funzionari direttivi o dei dirigenti dell'Amministrazione penitenziaria e possono essere preposti, a domanda, alla direzione dei servizi tecnico-logistici, del servizio di traduzione dei detenuti ed internati e del servizio di piantonamento dei detenuti ed internati ricoverati in luoghi di cura, secondo le modalità stabilite dal regolamento di servizio di cui all'articolo 29, nonché dei servizi di amministrazione. Possono altresì essere preposti, a domanda, alla direzione degli istituti e servizi dell'Amministrazione penitenziaria, sempre che siano in possesso dei requisiti previsti dalle leggi vigenti per il corrispondente profilo professionale.

Per l'integrazione e la parziale modifica di quanto disposto dal presente comma, si deve far riferimento all'art. 27 del D. Lgs. 21 maggio 2000, n. 146, rubricato “Ricollocamento del personale del ruolo ad esaurimento” ove è disposto che, ad integrazione e parziale modifica del comma 6 dell'articolo 25 della legge 15 dicembre 1990, n. 395, nell'àmbito dell'Amministrazione penitenziaria i predetti ufficiali, per la specifica professionalità e per la peculiare esperienza da essi maturata a livello operativo, sono applicati:

a) presso uffici e servizi tecnico-logistici, sia a livello centrale che periferico, con funzioni di direzione o di supporto alla direzione;

b) nel servizio di traduzione e piantonamento dei detenuti e degli internati, sia a livello centrale che periferico, con compiti di direzione o di supporto alla direzione;

c) presso i Provveditorati regionali, di supporto al Provveditore per i settori e per le problematiche di cui alle lettere a) e b), oltre che per gli aspetti organizzativi e di coordinamento relativamente all'impiego dei contingenti di Polizia Penitenziaria, alla idoneità delle caserme, delle mense e degli equipaggiamenti;

d) nelle articolazioni centrali, presso l'Istituto superiore di Studi penitenziari e presso le scuole, di supporto ai responsabili di dette strutture per l'attività didattica, di formazione e di addestramento del personale del Corpo di Polizia Penitenziaria. In tale àmbito sono preposti alla direzione ed alle connesse attività operative dei poligoni di tiro dell'Amministrazione.

Tale impiego è di norma disposto a domanda dell'interessato e con provvedimento da emanarsi tenendo conto dei criteri di cui all'articolo 90 del decreto del Presidente della Repubblica 15 febbraio 1999, n. 82. È comunque fatta salva la facoltà dell'Amministrazione penitenziaria, per sopravvenute esigenze e per il perseguimento di propri obiettivi prioritari, di disporre autonomamente l'impiego di ufficiali nei compiti di cui al comma 1.

Fermi restando il grado rivestito e l'anzianità posseduta, le funzioni, sia di livello direttivo che dirigenziale, attribuibili agli ufficiali del ruolo ad esaurimento sono quelle corrispondenti alle responsabilità ed agli incarichi ad essi effettivamente conferiti dall'amministrazione.

Dal tenore della normativa citata emerge un chiaro riconoscimento legislativo del ruolo istituzionale degli ufficiali del Corpo degli agenti di custodia, accompagnato dall’obbligo amministrativo del conferimento, anche d’ufficio, di incarichi corrispondenti al grado rivestito e alla professionalità acquisita.

Le richieste del ricorrente per il conferimento di funzioni dirigenziali si sono protratte sin dal 2003, come è evincibile dalla missiva data 2 gennaio 2003 (doc. 2 del fascicolo di parte ricorrente) e sono state ulteriormente reiterate in data 18 novembre 2004 (doc. 4), 16 giugno 2005 (doc. 6), 3 ottobre 2007 (doc. 7), sebbene senza esiti. Dalle varie note dell’Amministrazione, prodotte da parte ricorrente, risulta infatti che l’Amministrazione medesima ha provveduto a conferire incarichi dirigenziali ad altri dipendenti, appartenenti anche a personale diverso da quello in servizio presso la DGRMBS, ignorando l’interessato, senza che tale condotta omissiva fosse giustificata da un’esigenza di interesse pubblico ed anzi in apparente contrasto con i principi di razionalizzazione delle risorse pubbliche pure invocati dalla medesima resistente in alcuni suoi provvedimenti.

Come emerge dagli atti depositati dal ricorrente nel ricorso introduttivo e da quanto risulta dalle note di replica del 14 giugno 2019, l’Amministrazione non solo non ha riconosciuto la professionalità acquisita dal ricorrente, ma anzi ha prediletto la nomina a dirigente di altre risorse dell’organico provenienti anche da altre articolazioni dell’Amministrazione.

Basti a tal fine menzionare gli incarichi attribuiti ai -OMISSIS- con riferimento alla posizione per cui il ricorrente ha negli anni presentato domanda, a fronte di qualifiche non certamente superiori dai medesimi possedute.

La pluralità delle condotte lesive è poi culminata nel decreto del 10 ottobre 2012 con cui il Ministero della Giustizia ha proceduto alla soppressione della Commissione di studio presieduta dall’odierno ricorrente, privandolo del tutto della possibilità di esplicare la propria professionalità, nonché nei provvedimenti con cui l’Amministrazione resistente, motivando sulla scorta di generiche esigenze di razionalizzazione dell’Ufficio, ha richiesto al medesimo il trasferimento in altro locale adibito a stanza in uso al personale dipendente, dopo 16 anni di occupazione della stessa stanza da parte del ricorrente medesimo (nota prot. n. 001161 del 2013, nota prot. 207/LIV. DIV. Del 15 marzo 2013, nonché doc. 30, 32 e 34 del fascicolo di parte ricorrente).

Si consideri pure che, da quanto asserito dal ricorrente e non contestato dalla resistente Amministrazione, il dipendente è stato posto per un biennio in condizioni di totale inattività, stante l’asserita inesistenza di incarichi cui adibire l’ufficiale medesimo.

Da quanto innanzi emerge dunque chiaramente la condizione di inattività o comunque di attività non conforme alla professionalità ed alle qualifiche dell’odierno ricorrente, idonea ad integrare uno degli elementi costitutivi della fattispecie di mobbing.

A fronte di ciò, l’Amministrazione, negli scritti difensivi, si è limitata a richiamare le procedure per il conferimento degli incarichi dirigenziali, riconoscendo, implicitamente, di non aver mai conferito al ricorrente un incarico adeguato al grado rivestito.

Al riguardo, si deve ritenere che non possono ricadere sul ricorrente le disfunzioni organizzative, indicative di colpa grave dell’apparato, emergendo dal carteggio processuale una radicale incapacità di impiegare correttamente gli ufficiali superiori del Corpo degli agenti di custodia.

Particolarmente significativa, in proposito, è la nota del Direttore generale delle RMBS in data 23 febbraio 2010, laddove l’alto funzionario dichiara che “si deve prendere atto dell’impossibilità materiale di procedere ad impiegare” i dirigenti militari ed esorta il Capo del Dipartimento ad “affrontare la problematica degli ufficiali inquadrati nella dirigenza, così da concludere una problematica che si trascina stancamente ormai da quasi 20 anni, che non giova all’Amministrazione, che serve solo a demotivare, oltre ogni limite e capacità di tolleranza umana, personale che potrebbe ancora dare un contributo deciso e pregevole in termini di capacità… lo chiede il rispetto che si deve dare alla dignità degli interessati”.

Si deve considerare, inoltre, che la dequalificazione del generale si è protratta fino al suo collocamento anticipato a riposo, in data 15 novembre 2016, per infermità.

Deve quindi ritenersi che la mancata attribuzione delle funzioni dirigenziali cui il ricorrente medesimo ambiva abbia determinato un danno da dequalificazione professionale, particolarmente significativo e per tempo e per la natura della condotta lesiva. A ciò si aggiunga inoltre il danno da perdita di chance correlato al venir meno delle occasioni di carriera che sarebbero state offerte all’ufficiale qualora correttamente impiegato, con la possibilità di ambire anche al grado superiore.

La condotta amministrativa innanzi descritta potrebbe integrare, inoltre, gli estremi del mobbing, essendo ravvisabile una strategia unitaria persecutoria tesa ad emarginare il dipendente, finanche a porlo in una condizione di soggezione.

Prova di ciò è data dal procedimento disciplinare avviato nei confronti del ricorrente il 20 agosto 2014, per assenza dal servizio, archiviato solo nell’aprile 2015, in seguito alle controdeduzioni dell’interessato.

Qualora, dunque, fosse accertato che il dipendente, oltre il danno da dequalificazione, abbia sofferto anche un danno non patrimoniale alla salute psico-fisica, dovrebbero ritenersi sussistenti tutti gli elementi costitutivi della fattispecie di mobbing elaborati dalla giurisprudenza, collocabile nell’alveo della responsabilità contrattuale, aggravata dalla posizione qualificata rivestita dall’Amministrazione nei confronti del dipendente pubblico.

Il Tribunale ritiene, dunque, in applicazione dell’art. 1226 cc, di poter liquidare in via equitativa il danno patrimoniale da demansionamento e perdita di chance sofferto dal ricorrente, unitamente considerato (Cass. n. 6110 del 2012) tenendo in considerazione il periodo in cui tale illecito atteggiarsi dell’Amministrazione si è espletato (decorrente dal 2003 ed aggravatosi con la dispensa del ricorrente dal servizio per infermità nel 2016), la gravità e le modalità della condotta amministrativa valutata anche in relazione all’importanza delle funzioni di pertinenza del ricorrente e le conseguenze verificatesi in relazione alle mancate progressioni di carriera (Cass. n. 4063 del 2010).

Il parametro di liquidazione del danno è attinto dal precedente di questo stesso giudice (Sentenza n. 00896/2013) con cui si è deciso un ricorso quasi esattamente sovrapponibile a quello del -OMISSIS-, tenendo conto che nel caso dell’attuale ricorrente la gravità della condotta illecita è aggravata dalla maggior durata (anni 14) ma è attenuata dalla circostanza che l’odierno ricorrente si è limitato a chiedere il conferimento di un solo specifico incarico.

Ciò non esclude la responsabilità contrattuale dell’Amministrazione che avrebbe dovuto provvedere anche di propria iniziativa, ma determina la compensazione delle circostanze aggravanti con quelle attenuanti.

A titolo di responsabilità contrattuale, quindi, il Ministero della Giustizia deve essere condannato al risarcimento dei danni da dequalificazione professionale e da perdita di chance, il cui importo viene liquidato in euro centomila attuali oltre interessi legali, decorrenti dalla data di pubblicazione della presente sentenza, fino all’effettivo pagamento.

In relazione agli ulteriori danni richiesti, da qualificarsi quali voci meramente descrittive dell’unica voce di danno non patrimoniale ai sensi dell’art. 2058 cod. civ. - che attiene alla lesione di interessi inerenti alla persona non connotati da valore di scambio e che presenta natura composita, articolandosi in una serie di aspetti (o voci) aventi funzione meramente descrittiva, quali il danno morale (identificabile nel patema d'animo o sofferenza interiore subìti dalla vittima dell'illecito, ovvero nella lesione arrecata alla dignità o integrità morale, quale massima espressione della dignità umana), quello biologico (inteso come lesione del bene salute) e quello esistenziale (costituito dallo sconvolgimento delle abitudini di vita del soggetto danneggiato), dei quali, ove essi ricorrano cumulativamente, occorre tenere conto in sede di liquidazione del danno, in ossequio al principio dell'integralità del risarcimento, senza che a ciò osti il carattere unitario della liquidazione, da ritenere violato solo quando lo stesso aspetto (o voce) venga computato due (o più) volte sulla base di diverse, meramente formali, denominazioni (cfr. Cass. Sez. Unite, n. 26972 del 2008) - il Collegio ritiene di dover disporre un’ulteriore attività istruttoria.

È difatti necessario disporre una verificazione onde accertare se la patologia “-OMISSIS-”, risultante dalla perizia espletata presso la Commissione Ospedaliera del Dipartimento di Medicina Legale di Roma in data 10 novembre 2016 (doc. 1) e già accertata precedentemente dalla ASL RM/D, sussista e se sia stata cagionata dalla reiterata e sistematica condotta lesiva dell’Amministrazione resistente e se del caso, abbia determinato ed in quale misura postumi invalidanti.

A tal fine si dispone che la verificazione venga espletata .dall’Università “La Sapienza” di Roma; in proposito il Rettore della predetta Università dovrà individuare un collegio di due professori esperti nella materia correlata alla patologia da accertare, i quali procederanno all’adempimento istruttorio (previo avviso alle parti in causa almeno cinque giorni prima della data d’inizio delle operazioni) nel termine di giorni novanta dalla comunicazione, in forma amministrativa o dalla notifica, ad istanza di parte, del presente provvedimento, depositando, all’esito, un elaborato scritto relativo agli accertamenti effettuati.

Per la prosecuzione del giudizio, deve essere fissata l’udienza pubblica indicata nel dispositivo.

La statuizione in ordine alle spese processuali è rinviata alla sentenza definitiva.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Quater), non definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto:

Accoglie la domanda di risarcimento del danno patrimoniale da dequalificazione professionale e da perdita di chance e, per l’effetto, condanna l’Amministrazione resistente a pagare in favore del ricorrente la somma di euro centomila (100.000,00) oltre interessi legali dalla data di pubblicazione della presente sentenza fino all’effettivo pagamento.

Dispone la verificazione nei sensi di cui in parte motiva.

Fissa, per la prosecuzione del giudizio, l’udienza pubblica del 18 febbraio 2020.

Rinvia alla sentenza definitiva la statuizione in ordine alle spese processuali.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e all'articolo 9, paragrafi 1 e 4, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 e all’articolo 2-septies del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, come modificato dal decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti o di persone comunque ivi citate.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 luglio 2019 con l'intervento dei magistrati:

Donatella Scala, Presidente FF

Mariangela Caminiti, Consigliere

Antonio Andolfi, Consigliere, Estensore


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