Il procuratore capo della Repubblica Pietro Scaglione ucciso a Palermo a raffiche di mitra
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STORIA Il procuratore capo della Repubblica Pietro Scaglione ucciso a Palermo a raffiche di mitra 06/05/1971 

Eliminato dalla mafia un magistrato che sapeva troppo. Pietro Scaglione aveva 65 anni - Ogni mattina si recava sulla tomba della moglie - Alla periferia della città un'auto ha stretto contro un muro la vettura del magistrato - Poi hanno cominciato a sparare dai finestrini e dal marciapiede - Il primo a cadere è stato l'agente autista, poi il giudice - Quando le vittime sono state soccorse non c'era nulla da fare: gli assassini erano fuggiti - Nessun testimone si è fatto vivo, solo un passante ha detto di avere visto una « 850 » correre pazzamente a clacson spiegato. Giunto a Palermo il vice capo della polizia.

Il procuratore della Repubblica di Palermo, Pietro Scaglione, è stato assassinato stamane verso le ore 11. Insieme all'alto magistrato è caduto sotto i colpi degli assassini anche l'agente di custodia Antonino Lo Russo, che guidava l'automobile «1300» Fiat in servizio di Stato, che recava, come ogni mattina, il dott. Scaglione al suo ufficio, in Palazzo di Giustizia.

L'agguato è avvenuto nei pressi del cimitero dei Cappuccini, in via dei Cipressi, uno stretto budello di strada, lungo alcune centinaia di metri, che per un lungo tratto è costeggiato dalle mura di cinta del convento dei frati. Il procuratore Scaglione si era recato, come ogni mattina, in cimitero alla tomba della moglie, morta sei anni fa. D'abitudine, il magistrato si faceva scortare dal brigadiere della P.S. Sebastiano D'Agostino: stamane, però il brigadiere aveva chiesto ed ottenuto dal magistrato il permesso di recarsi in banca a sbrigare alcune sue faccende.

Omicidio Pietro Scaglione - l'auto crivellata di colpi

Anche il figlio del procuratore Scaglione,' il dott. Antonio, assistente di procedura penale all'Università di Palermo, molto spesso era compagno del padre nell'appuntamento mattutino alla tomba cara. Ma, stamane, sono solo due le persone che entrano poco dopo le 10,30 nel cimitero dei Cappuccini e ne escono mezz'ora più tardi.

L'itinerario, le abitudini della vittima sono stati studiati con molta cura. Percorsi forse cento metri, l'automobile del dott. Scaglione viene raggiunta da un'altra, una « 850 » Fiat di colore bianco, che sopraggiunge alle spalle e che costringe la macchina del dott. Scaglione ad accostare verso il marciapiede e a fermarsi. Ma prima ancora che la rqacchina sia ferma, dalla « 850 » partono colpi uno dopo l'altro, sparati dall'interno della vettura che ha i cristalli abbassati, ed altri colpi partono dal marciapiede.

E' una tempesta di proiettili che rintronano nella viuzza, deserta in quel momento. Il luogo sembra favorire la fuga che gli assassini intraprendono immediatamente dopo, allontanandosi con il clacson pigiato lungo le strade del quartiere Zisa, un quartiere molto popolare che fu un tempo teatro della gesta di alcuni « boss » della mafia palermitana. Pietro Scaglione e l'agente Lo Russo si abbattono feriti a morte: il magistrato colpito alla tempia destra ed a quella sinistra, al braccio, all'avambraccio ed alla mano sinistra, l'agente con tre proiettili nel petto.

Per alcuni minuti, intorno all'automobile sconquassata dalla sparatoria nessuno osa avvicinarsi. Il traffico è abbastanza rado, in via dei Cipressi, e l'agguato è avvenuto in corrispondenza con un gruppo di edifici disabitati. C'è, al numero 262, una donna, Rosa Badalamenti, che però in quel momento si trovava nel giardino e dice di non avere udito altro se non le sirene delle « gazzelle » della polizia e dei carabinieri che sopraggiungono cinque-dieci minuti dopo il misfatto. Altri testimoni non si fanno vivi, solo un passante riferisce per telefono alla polizia d'essere stato stretto al marciapiede poco dopo le 11 in quei pressi da una « 850 » chiara (della quale ha fornito alcuni numeri di targa) che correva pazzamente a clacson spiegato. La polizia sopraggiunge quando già i due sventurati sono in fin di vita: con l'automobile della polizia, vengono trasportati all'ospedale della « Feliciuzza », dove però giungono entrambi cadaveri.

Ma c'è un tocco di crudeltà che la sorte ha riservato all'agente Lo Russo: uno dei primi accorsi è il generale dei carabinieri Angelo Campanella, comandante della VI Brigata dell'arma in Sicilia. Alla guida dell'auto che accompagna sul luogo il generale siede l'autista Mario Lo Russo, appuntato dei carabinieri; a lui han detto che bisognava correre per un delitto. Quando arriva davanti all'automobile del procuratore Scaglione, la riconosce: lo informano che è morto il procuratore ed è morto anche l'autista, il fratello dell'appuntato Lo Russo. « Assassini, li ucciderò, li ucciderò in tribunale! », grida Lo Russo.

Scatta il dispositivo delle indagini: Palermo, che negli uffici della, questura è schematicamente rappresentata in un grande quadro elettronico a quadranti luminosi, appare avvolta da una rete ,di pattuglie che la rastrellano metodicamente quartiere per quartiere, bloccando anche le vie d'accesso e gli itinerari più probabili per l'uscita verso i naturali nascondigli dei « gangsters ». Si perquisiscono autorimesse, officine meccaniche. E intanto il dramma è fulmineamente conosciuto in città: in Palazzo di Giustizia gli avvocati sono riuniti in assemblea (sono da tre giorni in sciopero per la questione della riforma tributaria), e all'istante sospendono i lavori. Anche i magistrati lasciano i loro uffici, sospendono le udienze, si raccolgono nell'atrio a commentare l'assassinio. Il lavoro degli indagatori si presenta difficilissimo; vengono rintracciati, lungo il tratto di via dei Cipressi cha ha visto cadere, sotto i colpi degli assassini, Scaglione e Lo Russo, una dozzina di proiettili e bossoli, alcuni calibro 7,65 (di pistola), altri calibro 9 (di arma automatica, probabilmente « pistole - maschine). Altri proiettili vengono recuperati all'interno dell'automobile devastata dai colpi, altri sono ritenuti nel corpo del procuratore della Repubblica.

L'agguato, questo appare chiaro, ha visto in azione non un solo individuo o due, ma tre o, forse, anche quattro: da certi indizi sembra accertato che un quarto « killer » fosse appiattato dietro la piccola curva che la strada compie nel punto dell'imboscata: la sparatoria, dunque, avrebbe avuto un andamento concentrico, dal fianco e dal davanti della « 1300 i. che trasportava le due vittime (l'autista al volante, il magistrato sul sedile posteriore). Ci si domanda se la strage non avrebbe potuto essere piU terribile ancora, qualora stamane anche il figlio di Scaglione ed il brigadiere di scorta fossero stati nella vettura. Ci si domandano, ovviamente, molte altre cose, senza che sia possibile dare una risposta. Perché quest'assassinio?

Pietro Scaglione, che era nato a Lercara Friddi (provincia di Palermo) nel 1906, era un personaggio - chiave della vita palermitana; aveva esordito come pretore a Palermo nel 1928, e poi v'era tornato nel 1947 come « applicato » alla procura generale della Repubblica. Si era trovato « nell'occhio del ciclone » negli anni roventi della guerriglia intorno a Palermo, capeggiata dal bandito Salvatore Giuliano, e aveva continuato a rimanervi (con una parentesi di due anni a Roma, come consiglier e di Cassazione) anche negli anni in cui la mafia si trasforma: non è più l'antica « mafia delle vacche », taglieggiatrice dei contadini in provincia; la mafia è divenuta insolente e ribalda; s'è urbanizzata, ha messo le mani sullo sviluppo edilizio e lo controlla. Controlla le elezioni, i mercati della frutta, della verdura, della carne, del pesce, i cimiteri, le licenze di commercio, le « guardianie » delle fabbriche e delle ville, delle aziende pubbliche e private, l'acqua e la droga, il contrabbando di sigarette e le assunzioni al lavoro, i cantieri navali e, in qualche modo, lo stesso Consiglio regionale.

Che Pietro Scaglione a quest'assalto dell'illegalità abbia fatto fronte in modo convincente ed efficiente non si potrebbe davvero dire, e può anzi dirsi che egli stesso è rimasto vittima d'un fenomeno che per lungo tempo (fino al 1963, alla fine di giugno, quando saltò in aria una « Giulietta », uccidendo, alla periferia di Palermo, in località Ciaculli, sette carabinieri e agenti di polizia) venne considerato soltanto nei suoi aspetti più clamorosi e non invece nelle sue profonde implicazioni politiche ed economiche. Fu dalla strage di Ciaculli che ebbe il « via » la Commissione parlamentare antimafia, la cui sola esistenza significa che il problema appartiene drammaticamente alla patologia della società siciliana e dei suoi « modelli di sviluppo ».

Il magistrato, che aveva visto sul suo tavolo annodarsi tanti fili di questa sanguinosa e, ancora oggi, misteriosa trama, nell'ultimo anno s'era urtato ad uno scoglio: la « questione Liggio ». Luciano Liggio, un capo mafia assai temuto, era stato arrestato nel 1964 dopo quasi 14 anni di vita alla macchia e di imprese criminose (otto omicidi era il bilancio provvisorio). Ma, processato dalla Corte d'assise di Bari l'anno scorso, il « boss » usci assolto.

La sentenza fu definita « scandalosa » in Parlamento, e difatti venne emessa dopo che ai giudici era stata recapitata una lettera minatoria. Era necessario provvedere alla « custodia precauzionale » del capomafia, che viceversa in attesa degli eventi passò da una clinica di Taranto a una di Roma, sempre molto bene accolto e molto ben curato. Quando gli agenti mossero a notificargli il provvedimento, il degente era sparito.

Ne nacque uno scandalo, e la Commissione parlamentare antimafia decise di aprire un'inchiesta che vide fronte a fronte il procuratore della Repubblica Scaglione, il presidente del tribunale La Farlita, ed il questore di Palermo, Zamparelli, tutt'e tre chiamati a spiegare come potesse essere avvenuto lo strano disguido in base al quale un provvedimento di tanta importanza sarebbe dovuto scattare solo se il Liggio si fosse spinto a fissare la sua dimora in Sicilia, anzi nel suo paese natale, Corleone. Il palleggiamento delle responsabilità si concluse con Zamparelli e con un'inchiesta del Consiglio superiore della magistratura sui due magistrati palermitani. Inchiesta che nell'aprile scorso fu archiviata.

Evidentemente, la tesi di Scaglione era stata accolta dall'organo regolatore della vita della magistratura. Ma la promozione a procuratore, che egli attendeva da molti mesi, venne ritardata e solo in queste ultime settimane egli aveva appreso la sua nomina a procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'appello dì Lecce, sede che si disponeva a raggiungere alla fine di questo mese. Ma si staccava malvolentieri (e non ne faceva mistero con gli amici) dalla Sicilia, anche perché non tutte le ombre erano state dissipate e quella promozione doveva apparirgli un amaro epilogo della sua vita di magistrato.

E poi lo tormentava il continuo riaffiorare del «caso Liggio ». Che cos'era successo, in questi ultimi giorni, nello studio di Pietro Scaglione in Palazzo di Giustizia? Stasera, questa sensazione, che il segreto dell'atroce sua morte sia custodito in qualche carta del suo ufficio si va facendo strada. Nella giornata di domani gli investigatori provvederanno all'esame delle « pratiche » che egli teneva' in evidenza (lo .studio del dott. Scaglione quest'oggi è rimasto chiuso e sorvegliato), e di ogni altro appunto che possa rischiarare il buio in cui stasera ci si muove, alla ricerca di un « perché ». Questa sera sono giunti a Palermo, all'aeroporto di Punta Raisi, il vicecapo della polizia dott. Calabresi e l'ispettore generale di Pubblica Sicurezza dott. Testa. I due funzionari del ministero dell'Interno sono stati ricevuti dal questore Li Donni e dagli altri funzionari di polizia di Palermo. Quindi, nella sede della questura, il vicecapo della polizia ha riunito tutti i funzionari e gli ufficiali dei carabinieri che partecipano alle indagini.

La Stampa 6 maggio 1971

 

 


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