Il Procuratore invendicato: Tommaso Buscetta conosce forse la verità sull'omicidio di Pietro Scaglione
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STORIA Il Procuratore invendicato: Tommaso Buscetta conosce forse la verità sull'omicidio di Pietro Scaglione 08/12/1972 

Tommaso Buscetta conosce forse la verità sull'omicidio di Pietro Scaglione come su altri crimini - Ma non parlerà: molti a Palermo pensano che fuggirà come Liggio o verrà ucciso come Pisciotta. Dopo venti mesi d'indagini si sa soltanto che l'alto magistrato, uomo di potere occulto, cadde per una sentenza della mafia: forse perché, occupandosi del caso De Mauro, aveva accusato una delle due fazioni.

Ora che Tommaso Buscetta è entrato all'Ucciardone sarebbe lecito pensare che, finalmente, molti grossi nodi della criminalità siciliana saranno sciolti. Non gli hanno attribuito la responsabilità, diretta o indiretta, di guasi tutti i delitti compiuti negli ultimi nove anni a Palermo e dintorni, dalla strage di Ciaculli il 30 giugno 1963 (sette carabinieri dilaniati dall'esplosione di un'automobile al tritolo), all'uccisione del giornalista Mauro De Mauro, a quella del procuratore della Repubblica Pietro Scaglione? Invece, quasi sicuramente, tutto resterà come prima, in una Palermo sempre più scettica, che affonda sempre più nel pantano dì un'esistenza avente per emblema il delitto impunito. Buscetta è oggi il comodo bersaglio su cui far convergere molte responsabilità: una tecnica che a Palermo è stata usata sovente con successo. Può darsi che egli sappia molte cose, ed allora non si può escludere che i suoi « amici » gl'impongano un silenzio alla Pisciotta; oppure è considerato dagli « amici » molto importante e si può prevedere che riusciranno a tirarlo fuori di galera in qualche modo e indicargli la via di una sicura latitanza: alla Liggio per intenderci.

Non lo sapremo

Il nome di questo inafferrabile corleonese si riaffaccia con veemenza ogni volta che si riprendono le fila di vecchie e nuove vicende criminose; di Liggio si è parlato anche per le uccisioni di De Mauro e di Scaglione. Oggi, con l'arrivo a Palermo di Buscetta che si dice sia stato l'esecutore degli ordini di Liggio, i due delitti su cui non si è scoperto nulla, nemmeno un indizio tenue tenue, tornano a interessare l'opinione pubblica. E non perché si speri d'intravedere finalmente un barlume di verità, ma perché quei fatti rientrano in un contesto che potremmo definire « la moda della mafia ». Una moda che può sembrare irrazionale ed ha invece precise origini nel vuoto assoluto dei poteri dello Stato. « Non voglio più parlare di mafia, tra film e romanzi l'hanno resa simpatica a tutti » mi diceva Leonardo Sciascia, e con ragione: ieri, all'arrivo di Buscetta, alla

stazione di Palermo, insieme con fotografi, giornalisti e televisione c'era ima folla considerevole ad attenderlo, come si trattasse d'un personaggio di tutta onorabilità; se non è scoppiato l'applauso quando egli è sceso dal treno, è mancato poco. La mafia è divenuta argomento di moda in quasi tutti i continenti: e facile comprendere che a Palermo, dove crebbe e da cui si irradiò nel mondo, sia guardata da un'angolazione quasi affettuosa. Qui non si dice forse che la giustizia della mafia è di stampo inglese, non codificata, tempestiva, inesorabile? Un giudice togato impiega sette mesi per accorgersi che un ladruncolo — aveva rubato 350 lire — è ancora in attesa di giudizio; la mafia invece non impiega tanto tempo se deve punire qualcuno: la sentenza è attentamente soppesata è la pena. Quasi sempre la morte, applicata inesorabilmente e subito. Così è toccato a Pietro Scaglione, procuratore della Repubblica di Palermo, di dover subire la legge mafiosa dopo aver rappresentato per molti anni la legge della Repubblica italiana. O per non averla rappresentata, dicono alcuni. Sul delitto Scaglione non si sa più di quanto si sapesse il giorno dopo l'uccisione del magistrato, ed è probabile che non si saprà molto di più in avvenire, anche dopo l'arrivo di Buscetta.

Due magistrati genovesi, scelti per legittima suspicione, continuano le indagini, e il mistero rimane fittissimo. Perché riparliamo del delitto Scaglione, allora? Semplice: intendiamo ripetere alcuni motivi dai quali possono emergere interpretazioni sull'invincibilità della mafia.

Si sussurra che Scaglione avesse rapporti con gente di mafia, come se ciò fosse sufficiente a definirlo mafioso; anch'io, a Palermo, stringo non so quante mani mafiose al giorno. La sua figura è più complessa, e in questa « capitale della malavita », com'è stata definita Palermo, egli svolgeva un ruolo differente e superiore a quello legato alla sua professione. Nell'Italia dei grandi processi, dove sono stati messi sotto accusa, e alcuni condannati, gran parte di enti pubblici e grosse organizzazioni economiche e finanziarie — basti pensare al processo per il Banco di Sicilia — la magistratura tende fatalmente a divenire organo di potere: Scaglione ha intuito prima di ogni altro questa situazione e si è subito mostrato disponibile. In una regione come quella siciliana, dove il potere ufficiale è totalmente svuotato, è fatale l'avanzata del potere sotterraneo, che si fa sentire indirettamente. Amico prima di Bernardo Mattarella, poi di Giovanni Gioia, Pietro Scaglione finisce per avere un peso più che considerevole sul potere regionale, senza appartenere alla mafia nel senso di organizzazione, e per farsi sentire anche a Roma, perché i suoi amici hanno molta influenza sul governo centrale.

Già la sua carriera brillante e fulminea dice quanto egli fosse buon manovriero. Era pretore civile a Palermo quando fu messo a riposo il procuratore della Repubblica Palmeri: la successione doveva toccare per anzianità al giudice Crisaioli, ma Scaglione seppe agire tanto bene e tempestivamente, muovendo le pedine giuste, che ottenne l'incarico benché più giovane.

L'uomo in fuga

Altrettanta abilità la dimostrò anche durante la sua carriera di procuratore della Repubblica, imbastendo grossi processi, ma non tutti i processi; per esempio, egli ha lasciato in eredità ai suoi successori, che ora se li palleggiano, almeno venti processi da istruire contro l'amministrazione pubblica.
Egli prendeva in mano una causa come quella del Banco di Sicilia, e la portava in fondo. Durante l'istruttoria alcune imputazioni, le più clamorose, sono cadute. Perché toccavano personaggi troppo alti, o perché le accuse furono formulate in modo che non reggessero? Non lo sapremo mai.

Altri processi, invece, restavano ad attendere per molti anni; era il suo metodo di lavoro, e gli aveva dato molte soddisfazioni. Da magistrato egli era diventato l'uomo attorno al quale si muoveva tutta la vita palermitana, ed è chiaro che se aveva molti umici, aveva anche molti nemici. Egli era incurante di tutto, e quando fu ascoltato dalla Commissione antimafia nella sudata dei 25 marzo 1969,

due anni prima di essere assassinato, disse che in Sicilia il fenomeno mafioso era in netto declino. Era convinto di ciò che diceva? Meno di un anno dopo Luciano Liggio, condannato all'ergastolo dall'assise di Bari, sì volatilizza sotto gli occhi degli agenti. Sembra che lo scandalo investa Scaglione, che non ha emesso l'ordine di cattura, ma tutto finisce in un gioco di responsabilità tra l'amministrazione e la magistratura. Scaglione è di nuovo in sella.

Nel settembre del 1970 scompare Mauro De Mauro e Scaglione riferisce alla Commissione antimafia che stava conducendo indagini su una certa corrente mafiosa (forse responsabile del rapimento del giornalista?). Può darsi che abbia taciuto su un'altra corrente mafiosa, nemica di quella inquisita, perché non ne sapeva nulla, oppure per motivi suoi, e
non è da escludere che sia stata quest'omissione a perderlo.
La corrente mafiosa che si senti in pericolo, si mosse con tempestività, risolutezza, implacabilità. Che egli sia stato vittima della mafia non sì può nemmeno mettere in dubbio, il suo assassinio ha tutti gli aspetti del delitto rituale mafioso. I suoi nemici avevano mille modi per ucciderlo senza fa¬re tanto fracasso; era stato promosso procuratore generale a Lecce, dov'erano pendenti numerosi processi contro mafiosi siciliani: avrebbero potuto ucciderlo nella città salentina, oppure attenderlo di sera in qualche parte, investirlo con un'automobile. Hanno preferito ucciderlo in pieno giorno, sotto gli occhi del poliziotto che gli faceva da autista, divenuto per forza vittima anch'egli, crivellandolo con proiettili con l'ogiva intaccata perché esplodessero come pallottole dumdum, e sparandogli alfine in bocca, il colpo dello sfregio: « Ti sparo in bocca, ti sputo in bocca, ti... ».

Lasciamo perdere, quel modo di uccidere Scaglione, come quello di rapire De Mauro, cioè fatto con ostentazione, è tipico della mafia odierna: un avvertimento a coloro che possono essere al corrente di qualche segreto delle vittime. La mafia sa colpire al momento giusto, non è consentito sgarrare. Poi sì scrivono romanzi, si fabbricano film impastando questo materiale sanguinante: si ha successo, si incassano soldi e la mafia, così come viene presentata, finisce per assumere un volto meno feroce di quello con cui la dipingono i pochi, superatissimi sostenitori della giustizia dello Stato. I quali sì ritirano a coltivare le lettere e la speculazione filosofica, come fa Leonardo Sciascia, che pure ha contribuito non poco a diffondere con Il giorno della civetta la conoscenza del mondo mafioso siciliano.

La Stampa 8 dicembre 1972


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