La dura vita delle guardie nelle prigioni, detenute insieme a tutti gli altri reclusi
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STORIA La dura vita delle guardie nelle prigioni, detenute insieme a tutti gli altri reclusi 26/05/1974 

La nuova criminalità, più combattiva, spesso politicamente preparata, mette in difficoltà il personale di custodia delle carceri - Giovani del Sud che hanno scelto questo mestiere quasi per disperazione, senza una specifica preparazione.
«Il problema che adesso maggiormente mi angustia è quello delle guardie carcerarie» ha detto oggi il ministro della Giustizia Zagari. Presentava ai giornalisti gli atti di un convegno internazionale tenutosi a Roma nel febbraio scorso, sulla «strategia differenziata per la difesa sociale dal crimine». Ricordava l'insorgere di una nuova criminalità, che opera con metodi terroristici di modello internazionale e ha una preparazione «ingegneristica» del crimine. Riconosceva un mutamento nella fisionomia tradizionale d^lla popolazione carceraria, che è più matura, combattiva, con maggiori aspettative, e pone problemi nuovi di tutti i tipi, dalla prevenzione del crimine all'ordinamento penitenziario. Ha aggiunto: «Occorre un personale specializzato, negli istituti di pena. Invece disponiamo di un numero limitato di agenti (ce ne vorrebbero almeno altri 1800). Appena arruolati, dopo un corso di 6 mesi, li mandiamo sui muri di cinta, a rischiare ogni giorno l'incolumità fisica e quella penale. E' una categoria di lavoratori che soffre, soffre molto. Anche loro pagano le conseguenze di un'amministrazione delia giustizia per la quale si spende soltanto l'uno per cento del bilancio dello Stato». Il «problema» delle guardie carcerarie non è una scoperta di oggi, né un discorso strumentale agitato da pericolosi rivoluzionari che vogliono mettere in discussione l'intera istituzione carceraria. Il dottor Marcello Buonamano, ispettore generale degli istituti di prevenzione e pena, al quinto congresso dell'Associazione funzionari direttivi penitenziari, nel '69 ammetteva che «gli agenti di servizio nelle carceri sono sottoposti a un lavoro gravoso e logorante... sono tutti moralmente depressi per le umilianti condizioni di carriera ed economiche loro imposte». Sull'intéro corpo — e non è certo un caso — non esistono dati ufficiali, non si conosce un'indagine sociologica, che fornisca indicazioni precise sull'origine, la formazione e il ruolo dell'agente di custodia. Nel '61 uno studio di questo tipo fu svolto dal professor Fontanesi, criminologo, fondatore del centro di selezione del carcere di Rebibbia, che ha anche il compito di selezionare gli aspiranti agenti. L'indagine non fu mai pubblicata. «Stavo passando il tutto al "meccanografico" quando mi fermai per la paura di quello che stava venendo fuori... Mi creda, dati terribili, terribili...» dichiarò il professor Fontanesi agli autori del bellissimo libro sul «Carcere in Italia», Ricci e Salierno. Ma una radiografia della condizione di lavoro e di vita del «secondino» si può comunque ricavare dagli scarni dati ufficiali e dalle testimonianze di coloro che operano all'interno dell'istituzione carceraria. Le domande di arruolamento presentano alcune costanti fisse: crescono negli anni di recessione economica e diminuiscono quando l'economia del Paese registra qualche schiarita (furono 60 mila nel biennio '48-'50, scesero a 9 mila fra il '61 e il '63), provengono in stragrande maggioranza dal Meridione (l'86,5 per cento, nel triennio '66-69), dai figli dei contadini, da giovani a basso livello d'istruzione e di qualificazione professionale. Le richieste di proscioglimento prima del termine della ferma o della riafferma sono del 6-7 per cento, secondo fonte ministeriale: questo significa che alcune centinaia di guardie lasciano ogni mese il corpo, per motivi disciplinari, malattie, limiti d'età, ma soprattutto perché trovano un lavoro meglio retribuito: infatti a lasciare il corso per questa ragione generalmente sono quelli che prestano servizio nelle carceri del Nord, o i più giovani, o quelli che hanno riportato i più alti quozienti d'intelligenza alla selezione di Rebibbia. Lo sanno anche le autorità ministeriali che l'aspirante agente di custodia non ha praticamente scelte alternative, quando chiede di arruolarsi. E non gli forniscono un'adeguata preparazione psicologica e culturale per avvicinarsi a una realtà tanto complessa e difficile, ma lasciano invece che affronti da solo il regolamento severissimo, l'autoritarismo gerarchico, la spirale della segregazione che genera altre diffidenze e incomprensioni, le stesse decrepite e disumanizzanti strutture edili che racchiudono i detenuti — almeno per gli scapoli, fino ai 28 anni —, i turni massacranti, le paghe basse. Oltre — naturalmente — al carcere stesso, che è ancora il luogo della perquisizione personale, corporea, fin nelle parti più intime; delle celle di punizione; del cibo malsano; della gente che urla e si dispera; delle delazioni e dell'infamia per conquistarsi qualche piccolo privilegio; della censura bigotta; dell'omosessualità; dell'ozio forzato; dell'abbrutimento fisico e della degradazione morale dell'individuo.

La Stampa 26 maggio 1974


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