Le assistenti sociali e la vita del carcere
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STORIA Le assistenti sociali e la vita del carcere 18/05/1974 

Discusse le difficili condizioni di lavoro, molte se ne vanno - Sono circa 200: ma appena è possibile - Ricordata Graziella Giarda uccisa nella rivolta di Alessandria.
Nei giorni scorsi, mentre Alessandria rendeva omaggio alle vittime della tragica sparatoria nel carcere di Alessandria, a Roma si sono incontrate le colleghe di Graziella Giarda, l'assistente sociale che si era consegnata spontaneamente ai tre detenuti ribelli rimanendo alla fine brutalmente uccisa. Le delegate nazionali della categoria sono giunte da tutta Italia e hanno preso alloggio in una modestissima pensione. Hanno commentato gli avvenimenti, che tanto da vicino le toccano. Hanno ascoltato con emozione il racconto di Emma Baldini, torinese, assistente alle Nuove: il venerdì della strage salì nell'infermeria dove carcerati e ostaggi erano asserragliati, e vide per l'ultima volta Graziella, con le mani legate, il corpo raccolto per terra, l'aria decisa; la invitò a venirsene via implorando il Concu di lasciarla libera, si offrì di prendere il suo posto, la rincuorò. Ma la sua iniziativa fu inutile. «Graziella disse di no. O tutti o nessuno, ripeteva. Non era, il suo, un atto di altruismo un po' isterico. Lei, come gli altri, era sicura che le autorità non li avrebbero abbandonati» ha ricordato Emma Baldini. Hanno avviato, allora, il discorso sulla loro condizione, sul ruolo che l'istituzione carceraria loro affida. «Dovremmo fare da intermediarie fra autorità e detenuti — dichiarano in un documento — a molte di noi, invece, stanno a cuore le necessità umane e sociali dei carcerati, da sostenere a volte anche contro l'interesse dell'autorità. Si parla tanto di rieducazione, ma le strutture sono tali che niente in Questo senso sì può fare. Si sono usate parole di fuoco contro la follia esplosa ad Alessandria, ma non si è ricordato a sufficienza le promesse non mantenute, le riforme mai varate, la violenza e l'ingiustizia che quotidianamente al recluso vengono inflitte, la mortificazione della sua personalità. Né si ricorda abbastanza che le cause della delinquenza vanno fatte risalire alla mancata collocazione sociale dei più deboli, nella emarginazione provocata da norme di convivenza ingiuste e discriminanti». Sono, in tutta Italia, circa duecento. Ma il numero è fluttuante: appena è possibile, molte se ne vanno. La stragrande maggioranza è costituita da donne. Lo status degli assistenti sociali carcerari per gli adulti è un segno esemplare dei ritardi, l'approssimazione, l'ambiguità con cui il problema delle carceri in genere è stato affrontato da tutti i governi del dopoguerra. Ufficialmente non esistono. Nessuna legge prevede tale servizio. I primi apparvero alla fine degli Anni Cinquanta, nella zona intorno Roma e in via sperimentale. Uno dei pionieri che oggi è considerato personaggio di primo piano per esperienza, talento, umanissima conoscenza dei problemi è Egisto Fatarella: fu chiamato in servizio nel '61, con la qualifica di insegnante aggiunto di educazione civica e uno stipendio di 50 mila lire (mai più ritoccato), oltre agli assegni familiari e un esiguo rimborso spese, senza diritto a liquidazione, a scatti di anzianità, a pensione. Lavorava in una cella, fra incomprensioni e difficoltà di ogni tipo. Oggi è ancora a Regina Coeli, affiancato da un solo altro collega per far fronte alla massa enorme di problemi che i 600 detenuti del carcere riversano su di loro. Nessuno più dubita dell'utilità del servizio sociale all'interno delle carceri. Ma la riforma da decenni in discussione, e che prevede l'istituzione in organico di almeno 370 assistenti, è ancora in alto mare. Negli ultimi anni allora si è ricorsi a una soluzione di compromesso. Il grosso dei 200 attualmente in servizio sono stati «chiamati» dai consigli di patronato a titolo di «volontari»: hanno un rimborso spese di 120 mila lire, e la speranza — un giorno — di passare di ruolo. «Ci sono riforme ormai improrogabili — essi dicono — la loro mancata attuazione, non il permissivismo che nelle carceri dilagherebbe, è la vera causa dei disordini che esplodono. Il vero lassismo è il processo che dura sei o sette anni, la sentenza di 600 pagine, il cibo insufficiente per cui le famiglie devono — quando possono — inviare i pacchi ai reclusi, l'eccessiva facilità con cui si concede la libertà provvisoria, il lavoro per i detenuti che è solo occupazionale e non qualificante, la mercede che se ne ricava invece di un salario, la mancanza di strutture assistenziali e sociali per l'infanzia che tormenta i padri di famiglia reclusi e le loro mogli. Di una sola cosa tutti abbiamo bisogno: di giustizia».

La Stampa 18 maggio 1974


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